Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Un’allodola canta sui campi arati - cap. 7
Quel giorno del Venerdì Santo fu molto stancante e molto lungo. Ma pur venne la sera con tutta la sua pace. Fu una pace profonda, come la pace dei campi al termine dei lavori agresti. Allora la terra è sconvolta e squarciata. Essa non oppone più alcuna resistenza, ben aperta e docile. La frescura della sera la imbeve tutta.
Tornando verso l’eremo, Francesco si sentiva avvolto e pervaso della pace dei campi. Tutto era stato consumato. Cristo era morto, e si era rimesso alla volontà del Padre. Aveva accettato il suo scacco. La sua vita d’uomo, il suo onore d’uomo, la sua pena d’uomo, s’erano cancellati dai suoi occhi. Tutto ciò non contava più. Non restava più che una sola verità smisurata: Dio esiste. Questo solo contava e bastava: che Dio fosse Dio. Tutto il suo essere s’era inchinato dinanzi a questa sola realtà. Aveva adorato l’Essere unico ed era morto in questa accettazione senza riserve. In questa estrema povertà era morto Gesù, e in questa suprema accoglienza del Padre. E la gloria di Dio lo aveva rapito e lo aveva fatto suo.
Laggiù, al di sopra dei monti, il sole tramontava lentamente. I suoi raggi dardeggiavano il bosco nel cui folto camminava Francesco. La foresta era trafitta da grandi strisce di luce. Gli alberi navigavano in un vapore luminoso. Regnava per ogni dove una gran pace. Taceva ogni soffio di vento. L’ora era maestosa e serena.
- Dio esiste, e tanto basta - mormorò Francesco.
Da uno spiraglio tra i rami, Francesco contemplò il cielo che era sgombro di nuvole. Vi spaziava un nibbio rosso. Il suo volo tranquillo e solitario pareva che dicesse alla terra: «Dio solo è l’Onnipotente. Egli è l’Eterno. Basta che Dio sia Dio». Francesco sentì l’anima sua alleggerita. Possente e leggera, insieme, come un colpo d’ala.
- Dio esiste, e tanto basta - ripeté Francesco.
Queste semplici parole lo colmavano d’una luce nuova. Esse acquistavano per lui una infinita risonanza. Francesco tese l’orecchio. Lo chiamava una voce che non era umana. Essa aveva un accento di misericordia e parlava al suo cuore, dicendo:
- Povero piccolo uomo! Sappi, dunque, ch’io sono Dio, e smettila per sempre d’esser turbato. Perché t’ho fatto pastore del mio gregge, devi forse dimenticare che il pastore principale son io? Ti ho prescelto, o uomo semplice, perché sia ben chiaro agli occhi di tutti che quanto io ho operato in te, anziché alla tua abilità, si deve alla mia grazia. Son io che t’ho chiamato. Son io che custodisco il gregge e lo faccio pascolare. Io sono il Signore e il Pastore. Questo è affar mio. Perciò non preoccuparti d’altro.
- Dio! Dio! - esclamò sottovoce Francesco. - Tu sei protezione. Tu sei guardiano e protettore. Sei grande e ammirevole, o Signore. Tu basti a noi tutti. Amen. Alleluia.
L’anima di Francesco grondava pace e letizia. Egli camminava d’un passo felice. Anziché camminare, gli pareva di danzare. Giunse Francesco ad un luogo donde il suo sguardo poteva spaziare molto lontano sulla campagna. Di lì si dominavano le colline circostanti e oltre ad esse la pianura che sfumava all’orizzonte. Francesco si fermò un istante a contemplare il paesaggio. Su una delle colline un armento di vacche tornava dal pascolo. Era minuscola quella visione. Si distinguevano le bestie, e dietro di loro l’uomo in cammino. Tutt’intorno dovevan esserci dei cani, ma si distinguevano a mala pena. Quando una delle bestie si allontanava troppo dalle altre, essa veniva ricondotta nel gruppo come da una forza invisibile. L’uomo doveva urlare e i suoi cani abbaiare. Ma a quella distanza e a quella altezza non se ne percepivano le singole voci. La scena era pervasa di silenzio. Essa sembrava fusa con la vita silenziosa della natura. L’affaccendarsi del guardiano assumeva in quel complesso le sue giuste proporzioni. Era qualcosa di minuscolo, di quasi insignificante.
- Tu solo sei grande - esclamò Francesco.
Poi riprese il suo cammino. Il sole tramontava. La nebbia stava per seppellire i burroni. Le stelle eran sul punto di nascere in cielo. Era tutto così, pensò Francesco, fin dagli inizi dei tempi, fin dalla prima sera del mondo. Era questo un segno della eternità stessa di Dio.
Francesco stava avvicinandosi all’eremo.
Leone gli si fece incontro.
- Hai l’aria allegra stasera - gli disse Leone.
- Stasera porto in me un grande cielo luminoso - rispose Francesco. - E una invisibile allodola vi canta a perdifiato, celebrando la vittoria del Signore.
Un’ora più tardi Francesco stava inginocchiamo nel piccolo oratorio dell’eremo. Si sentì tirare per la manica. Alzò gli occhi e vide il volto di Rufino che si chinava su di lui.
- Oh, frate Rufino - esclamò Francesco.
- Buonasera, Padre - soggiunse Rufino con un largo sorriso. - Vorrei parlati, ma non subito. Fra qualche giorno, se me lo consentirai.
- Quando vorrai - gli rispose Francesco. - Tu sai che io son sempre qui. Si direbbe, frate Rufino, che hai ritrovato la gioia!
- Sì, Padre; ed è appunto questo ch’io volevo dirti fin da stasera, senza attendere oltre. Il resto te lo dirò a suo tempo.
- Dio sia lodato! - esclamò Francesco, alzandosi in piedi. E lo abbracciò.
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