domenica 11 agosto 2013

Ciò che Dio stesso ha costruito non può fondarsi sulla volontà o sul capriccio d’una creatura umana. L’edificio di Dio si fonda su basi ben più solide.


Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

È l’alba che s’accende? - cap. 6

Ci fu ancora una pausa di silenzio. Poi Chiara riprese:
- Supponiamo che una delle nostre sorelle venisse da me a scusarsi d’aver rotto un oggetto per via d’un gesto maldestro o di poca attenzione. Ebbene, io le farei senza dubbio un’osservazione e le infliggerei, come d’uso, una penitenza. Ma se ella venisse a dirmi d’aver dato fuoco al convento e che tutto è bruciato o quasi, credo che in tal caso non avrei nulla da ribattere. Io mi sorprendereisopraffatta da un avvenimento più grande di me. La distruzione del convento è un fatto troppo grande perch’io possa esserne profondamente turbata. Ciò che Dio stesso ha costruito non può fondarsi sulla volontà o sul capriccio d’una creatura umana. L’edificio di Dio si fonda su basi ben più solide.
- Deh, se soltanto avessi la fede grande come un grano di senape! - sospirò Francesco.
- Direste a questa montagna: «Togliti di lì», e la montagna si dissolverebbe - aggiunse Chiara.
- Sì, è così - confermò Francesco. - Senonché sono diventato ora come un cieco. Bisogna che qualcuno mi prenda per mano e mi guidi.
- Non si è ciechi se si vede Dio - replicò Chiara.
- Ahimé - riprese Francesco - nella mia notte io vado brancolando e non vedo niente.
- Ma Dio vi guida lo stesso - sentenziò Chiara.
- Lo credo, malgrado tutto - concluse Francesco.
Si sentivano gli uccelli cantare nel giardino. Lontano, nella pianura, un asino ragliò. Una campana prese a suonare con rintocchi ben distinti.
- L’avvenire di questa grande famiglia religiosa che il Signore ha affidato alle mie cure - riprese Francesco - costituisce un fatto troppo importante perché possa dipendere da me solo e dalle mie deboli forze, sì ch’io ne resti turbato. È un fatto questo di Dio. Voi l’avete ben detto. Ma pregate che questa parola fiorisca in me come un seme di pace.
Francesco si trattenne qualche giorno a San Damiano.
Le cure di Chiara gli fecero riprendere un po’ di forze. Nella pace di quel convento e nella dolce luminosità della primavera umbra, Francesco appariva liberato dalle sue inquietudini. Ascoltava felice il canto delle allodole. Le seguiva con lo sguardo su nell’azzurro infinito dov’esse si perdevano. Chiuso di notte in una capanna in fondo al giardino, Francesco passava le sue ore, insonni, assorto nella visione di cieli stellati. Le stelle non gli erano mai apparse tanto belle. Gli sembrava di scoprirle tutte per la prima volta. Esse lucevano chiare e preziose nel vasto silenzio della notte. Nulla le conturbava. Appartenevan esse, senza dubbio, al tempo di Dio. Le stelle non disponevano né di una volontà, né di un moto loro, esse si uniformavano semplicemente al ritmo di Dio. Perciò nulla poteva turbarle, dal momento che vivevano nella pace di Dio.
Frattanto Francesco si accingeva a tornare all’eremo. Pensava ai suoi frati rimasti lassù senza di lui. E pensava soprattutto a Rufino che considerava esposto ad un grave pericolo. La festa di Pasqua era molto vicina. Aveva fretta di rincasare Francesco per festeggiare coi suoi frati la Resurrezione di Cristo.

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