sabato 22 giugno 2013

sconfitti perché non abbiamo più il senso della pazienza e ci illudiamo di strappare la pace e la libertà con il mondo del tentatore.


Carlo Bo  Se tornasse San Francesco

Tutto si risolve nei momenti più sinceri in rimorso,
tutto si placa nella coscienza della nostra inadeguatezza,
in una pura ispirazione verso il bene, il perdono, l’amore.
Non di più;
e a volte ci sembra già molto, avvoltolati come siamo nella polvere del peccato,
dell’offesa a Dio che si fa sempre più sanguinosa,
per cui sembra non esserci alcun limite al bisogno di vendetta
e l’uomo ha imparato a bere il sangue delle vittime
e a sedere al banchetto che quotidianamente viene imbandito
per le maschere, le controfigure, i violentatori dell’uomo.
Questa è la risposta più infame che diamo
a san Francesco, che bussa alla nostra porta, a suo modo
una risposta esemplare nel senso del demonio, della grande tentazione di sovvertimento;
ma ci sono le altre risposte di comodo
che se sommate rappresentano un bel capitale d’inerzia di rinuncia e di rifiuto.
Il diavolo non soltanto assassino,
il più delle volte è un seminatore di inganni, di illusioni
e pochissimi fra di noi possono sostenere di non averlo mai conosciuto.
Ci ha insegnato
la distrazione,
l’omissione,
la perfida consuetudine dell’omertà,
il rovescio della lezione di san
Francesco.
Ecco perché la maggior parte delle volte che viene a battere alla nostra porta
facciamo finta di non sentire e non apriamo
e diventiamo strumenti della sua perfetta letizia.
Noi siamo getti d’acqua congelata
che gli percuotevano le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite.
Siamo noi a ripetere con il frate della porta che non si apre:
«Vattene, non è ora decente questa di arrivare»,
perché di questa «decenza» abbiamo fatto l’optimum della nostra filosofia.
Siamo sempre noi a ripetergli:
«Vattene, tu sei un semplice e un idiota, qui non ci puoi venire».
È sull’idiota, sull’ignoranza che fondiamo la nostra superbia,
siamo cioè noi ad essere sconfitti perché non abbiamo più il senso della pazienza
e ci illudiamo di strappare la pace e la libertà con il mondo del tentatore.
In tal modo lasciamo fuori della nostra porta
ciò che invece dovrebbe starci più a cuore,
la verità del cuore.

venerdì 21 giugno 2013

Niente dà più noia della povertà, nessuno disturba più del povero.


Carlo Bo  Se tornasse San Francesco

Nell’ambito della «povertà»
san Francesco aveva saputo distinguere il veleno
che uccide il corpo di un Paese,
intanto se ne era assunto la sua parte di responsabilità, per sé e per i suoi frati
e dal momento in cui si è convinto di questa verità
ha messo in moto la macchina della riduzione
al minimo,
all’essenziale
e perché era santo
del «sotto il minimo»,
dell’appena vitale,
insomma della sopravvivenza.
Questo significa quel suo voler chiedere per gli altri,
farsi povero per le strade,
alla porta della chiesa,
questuando per le case e sottoponendosi all’offesa e all’insulto.
Niente dà più noia della povertà,
nessuno disturba più del povero.
A distanza di molti secoli questa filosofia è stata ripresa e illustrata dal Manzoni
in uno dei grandi libri della letteratura,
che è ancora una storia familiare
ma dove lo spirito di san Francesco è vivo
nella violenza del mondo,
nella coscienza della colpa,
nel solenne invito al perdono
che fra’ Cristoforo rivolge a Renzo.
È la grande linea che riscatta una letteratura come la nostra
per tanta parte incline alla dilettazione retorica,
la linea che parte dal Cantico, passa per Dante e approda ai Promessi sposi.
Ma anche di questo abbiamo fatto una leggenda, qualcosa da ammirare dal di fuori
senza compromettere nulla di quanto sia veramente nostro,
del nostro interiore.

giovedì 20 giugno 2013

noi ci limitiamo al metro dello spiraglio, facciamo entrare nelle nostre case la sua leggenda e lasciamo fuori le sue verità che sono la pazienza, il perdono, l’amore


Carlo Bo  Se tornasse San Francesco

Quando Francesco batte alle nostre porte
e questo avviene molto più spesso di quanto non crediamo,
noi ci limitiamo al metro dello spiraglio,
facciamo entrare nelle nostre case la sua leggenda
e lasciamo fuori le sue verità che sono
la pazienza,
il perdono,
l’amore.
In fondo è soltanto l’amore che le raccoglie e le riassume tutte.
Perché lasciamo fuori di casa la sua verità «d’amore»?
Ma perché ne siamo incapaci, il regime di usura e di sfruttamento,
la regola del do ut des,
la filosofia di vita che ne consegue hanno come obiettivo primo lo spirito d’amore,
quel bonum che scriviamo sulle nostre insegne e in realtà non rispettiamo.
Il bonum è soltanto nostro e facciamo di tutto per ottenerlo, migliorarlo sul piano pratico
mentre non è mai
– come vorrebbe san Francesco –
quello degli altri.
Da questo punto di vista vince puntualmente
il nostro calcolo,
il nostro utile,
il senso delle convenienze.
San Francesco ha perso,
così come sembrano fatalmente decaduti i suoi sogni di una comunità umana
svincolata dalle dure leggi dell’economia,
i tentativi che sono stati fatti in altri continenti
e che si ispiravano alle sue più generose ambizioni appartengono alla Storia scritta
ed è improbabile che possano tornare in quella da scrivere.
I tempi per questo motivo non sono mai stati pronti,
lo sono sempre meno, anche se
nelle nostre programmazioni,
nelle nostre calcolatrici,
nei computer
mettiamo tutti i dati necessari per risolvere questo drammatico problema della disuguaglianza.
La società industriale ha ingigantito le ragioni del contrasto sociale
che al tempo di san Francesco avevano un carattere familiare,
ma non dimentichiamo che in prospettiva aveva intravisto l’importanza del tema e secondo la sua natura lo aveva risolto alle radici.

mercoledì 19 giugno 2013

Nei migliori, nei santi, nella sterminata famiglia di chi soffre e non ha voce si è rifugiata la dura lezione francescana, in tutti gli altri a cui apparteniamo spesso tende a sfumarsi in leggenda.

Ecco alcuni passi del rlibro di Carlo Bo.
Carlo Bo   Se tornasse San Francesco
Tornerà san Francesco?
Per ora siamo costretti a fantasticare sulla possibilità del suo ritorno,
rovesciando la domanda sotto forma di ipotesi:
se tornasse.
Se tornasse,
se un giorno battesse alla nostra porta di carta,
che lascia trapelare un’infinità di altre notizie, di altri messaggi,
come ci giocherebbe, quale sarebbe il suo stupore?
Un poeta francese dimenticato
ha scritto una poesia su uno di questi ritorni, sul maggiore che la nostra mente possa ipotizzare,
il Cristo come fantasma, come revenant.
Un viaggio scontato in cui il Cristo mascherato ritrova 
il mondo eternamente immerso nel lago della sua disperata solitudine,
una sorta di conferma dei nostri vizi, della nostra perpetua corruzione.
Sarebbe lo stesso per san Francesco e sulle macerie che da secoli cerchiamo di rimettere in piedi troverebbe qualche pezzo del libro delle sue regole, non proprio cenere così come non è cenere il Vangelo.
Tutti e due però questi frammenti a testimoniare
l’abbandono da parte nostra,
la rinuncia all’impresa,
il guanto gettato della sfida che si rivela insuperabile.
Così il Cristianesimo è stato e resta quasi sempre la più bella delle tentazioni,
la più pura idea dell’uomo,
ciò che vorremmo attuare e non ci riesce perché ci manca l’obbedienza,
l’amore per gli altri che annulla l’amore per noi stessi, il perdono.
Ne facciamo un canto, una poesia, un affresco:
tutti i simboli della più alta delle nostre ambizioni,
di quelle ambizioni che in partenza spegniamo nel colore indeciso, perso delle utopie.
Nei migliori, nei santi,
nella sterminata famiglia di chi soffre e non ha voce
si è rifugiata la dura lezione francescana, in tutti gli altri a cui apparteniamo
spesso tende a sfumarsi in leggenda.
Nel nostro caso, nella leggenda di san Francesco.

martedì 18 giugno 2013

Cosa faremmo, oggi se Francesco d’Assisi bussasse alla nostra porta?

«Se tornasse san Francesco», il breve saggio di Carlo Bo appena riproposto da Castelvecchi (pagine 64, euro 7,50). Si tratta dell'intervento che nell'aprile del 1982 inaugurò la serie di «Il Nuovo Leopardi», trimestrale diretto da Gastone Mosci e apparso con regolarità fino al 1999 "Nei migliori, nei santi, nella sterminata famiglia di chi soffre e non ha voce si è rifugiata la dura lezione francescana, in tutti gli altri a cui apparteniamo spesso tende a sfumarsi in leggenda. Nel nostro caso, nella leggenda di san Francesco."  Sembra un libro profetico se accostato al nostro papa attuale. E adesso che Francesco si è presentato alla nostra porta che cosa faremo?

Cosa faremmo, oggi se Francesco d’Assisi bussasse alla nostra porta? 
A partire da questa domanda Carlo s’interroga sul significato del messaggio francescano, o meglio sulla sua inattualità che lo rende più che mai necessario. 
In Francesco 
– il ricco che si fa povero e che vuole vivere nella propria carne i dolori della vita così come la bellezza del creato, che si affida totalmente alla fede – 
Bo vede l’esempio di chi sceglie 
di deviare 
dalla facile comodità, 
dallo stutus quo, 
dall’accumulo del possesso e 
dalla ribellione sterile. 
Il «no» con cui la nostra società 
risponde a san Francesco e a Gesù, 
continuando tuttavia a venerare le immagini svuotate di significato, 
è il segno di una crisi profonda, 
ma anche il punto da cui si può ripartire 
perché per Carlo Bo 
«il Cristianesimo è stato e resta la più bella delle tentazioni, 
la più pura idea dell’uomo». 
In queste pagine, scritte all’inizio degli anni Ottanta, 
la visione di Carlo Bo sul presente si esprime chiara nella sua completezza: 
c’è il critico militante, attento nella ricerca del valore della cultura come forza del cambiamento individuale e sociale, 
convinto che la letteratura 
debba essere «una guida e non un rifugio». 
E c’è il credente, il cristiano che si rivolge alla fede 
ma, proprio per questo, 
avverte chiara la crisi della religione nel confronto con la modernità.

Carlo Bo
È stato un critico letterario italiano. Ha fondato nel 1968 la IULM (Libera Università di Lingue e Comunicazione), che oggi ha sede principale a Milano. Dopo gli studi superiori presso i gesuiti dell’istituto Arecco di Genova, nel 1920 si trasferisce a Firenze dove si laurea nel 1934 in Lettere moderne. Inizia poi la carriera universitaria insegnando Letteratura francese e spagnola alla Facoltà di Magistero dell’Università di Urbino. A Firenze nei primi anni Trenta conosce Giovanni Papini e gli intellettuali della rivista «Frontespizio», alla quale collabora attivamente. Finita la guerra si stabilisce a Milano con Marise Ferro (12905-1991), precedentemente sposata con Guido Piovene. Si sposeranno nel 1963. Dal 1947 al 2001 è rettore dell’Università di Urbino, che è stata poi intitolata al suo nome nel 2003. Nel 1951 fonda la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori di milano, che poi aprirà sedi in tutta Italia. Nel 1984 è stato nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica in carica all’epoca, Sandro Petrini. Muore a Genova nel 2001. Tra le sue opere: Saggi di letteratura francese (1940), Mallarmè (1945), L’eredità di Leopardi e altri saggi (1964), Della lettura (1942).

lunedì 17 giugno 2013

sia l’impulso a conoscere Dio sia quello a conoscere la nostra anima sono entrambi buoni e veri

E in assoluta certezza vidi che per noi è più facile arrivare alla conoscenza di Dio che a quella della nostra anima. Poiché la nostra anima è così profondamente radicata in Dio e così infinitamente raccolta in lui che non possiamo arrivare a conoscerla se prima non abbiamo conoscenza di Dio, il quale ne è il Creatore e al quale essa appartiene. Vidi tuttavia che dobbiamo anelare, con saggezza e sincerità, alla conoscenza della nostra anima; per questo ci hanno insegnato a cercarla dove si trova, e cioè in Dio. E così, mediante la guida benigna dello spirito santo, li conosceremo entrambi nello stesso momento. E sia l’impulso a conoscere Dio sia quello a conoscere la nostra anima sono entrambi buoni e veri. Dio è molto più vicino a noi della nostra anima, perché lui ne è il fondamento... Giacché la nostra anima risiede in Dio in vero riposo, giacché la nostra anima riposa in Dio in forza salda, giacché la nostra anima è radicata in Dio in amore infinito. Quindi, se vogliamo avere conoscenza dell’anima nostra e stabilire con essa un intimo legame, sarà bene per noi cercarla in Dio nostro Signore, nel quale essa è racchiusa. [...] Aprendomi gli occhi dello spirito, nostro Signore mi mostrò l’anima mia nel centro del mio cuore, e io vidi l’anima e la vidi così vasta come se fosse un mondo infinito e un regno benedetto. (Giuliana di Norwich, Libro delle Rivelazioni).

domenica 16 giugno 2013

Un tempo la vita conosceva ritmi più distesi, più umani, conosceva il tempo della semina, ma anche quello del riposo e dell’attesa.

C’è chi persiste a parlare della nostra società
come di una società di gaudenti, grassa e satolla.
È un parlare dall’alto, uno sdottorare dai palchi e dai salotti televisivi,
senza entrare nelle case,
senza accarezzare con lo sguardo i volti.

Io vedo per lo più volti segnati dalla fatica,
le giornate per molti di un equilibrio fragile
come un incastro sofisticato:
basta un ritardo, una sospensione e il congegno è rotto
ed è l’inquietudine,
lo smarrimento.
Vedo gli occhi delle amiche e degli amici
cercare disperatamente,
dopo una giornata di corse,
di uscire dal velo di ansia che li copre,
per brillare di sorpresa
e dirti la gioia di esserci.

Nessuno vuol negare le durezze del tempo passato,
ma oggi
ne sono nate di nuove.

Un tempo la vita conosceva ritmi più distesi, più umani,
conosceva il tempo della semina,
ma anche quello del riposo e dell’attesa.
E nel cuore portavi i problemi di un solo villaggio, il tuo:
più in là non c’era conoscenza.
Oggi ti alzi al mattino
e la rassegna dei giornali ti carica dei problemi del mondo intero:
ti pesano negli occhi tristi,
perché a sciuparli è il senso tragico della nostra impotenza.
E tu non sei,
non sarai mai un indifferente.
Il problema oggi sta proprio qui:
come portare nei nostri occhi i problemi
e le inquietudini della vita del mondo.
Come attraversare le notti e non abbandonare la fiducia.
“La notte non è più notte davanti a te,
il buio come luce risplende”, dice il canto.
Non si tratta di non vedere o di far finta di non vedere.
Ma di vedere, di percepire nella notte un Altro:
la notte “davanti a Te”....
Non è un’ingenuità: a dar luce è una presenza.
È come quando cammini per strade buie,
ma una mano, la mano di un amico o di un’amica,
stringe la tua.
Non è più la stessa notte.
Negli occhi risuscita la fiducia.
(Angelo Casati,La fede sottovoce).