Non siamo in grado di muoverci verticalmente. Non possiamo fare neppure un passo verso il cielo. Dio attraversa l’universo e viene fino a noi. Al di là dello spazio e del tempo infinito, l’amore infinitamente più infinito di Dio viene ad afferrarci. Viene quando è la sua ora. Noi abbiamo facoltà di acconsentire ad accoglierlo o di rifiutare. Se restiamo sordi, egli torna e ritorna ancora, come un mendicante; ma un giorno, come un mendicante non torna più. Se noi acconsentiamo, Dio depone in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare, e a noi nemmeno, se non attendere. Dobbiamo soltanto non rimpiangere il consenso che abbiamo accordato, il sì nuziale. Non è facile come sembra, perché la crescita del seme, in noi, è dolorosa.
(Simone Weil, L’attesa di Dio).
L'impegno ci spinge più in là: verso qualcuno che resti anche quando noi passiamo; verso qualcuno che ci prende in mano il cuore, se il cuore non regge al salire. (Don Primo Mazzolari) fissare a memoria le parole di Paolo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1).
sabato 23 febbraio 2013
venerdì 22 febbraio 2013
Le mie proteste taciute (o espresse) mi hanno impedito di aggrapparmi a ciò che era ormai superato.
Paradossalmente, ho trovato la pace perché sono sempre stato insoddisfatto. I miei momenti di depressione e di disperazione finiscono per trasformarsi in occasione di rinnovamento, in nuovi inizi. Se mi succedesse una volta o l’altra di restare tranquillo e soddisfatto con il tram tram quotidiano, con i suoi ritmi e i suoi cliché, è perché sarebbe giunta l’ora di chiamare l’impresario delle pompe funebri. Così, allora, questo malcontento che talvolta mi preoccupava e ha certamente, lo so bene, preoccupato altri, mi ha di fatto aiutato a muovermi liberamente e persino allegramente nel flusso della vita. Le mie proteste taciute (o espresse) mi hanno impedito di aggrapparmi a ciò che era ormai superato. Quando un pensiero è stato espresso, lascialo. Quando qualcosa è stato scritto, pubblicalo e dedicati a qualcosa d’altro. Tu potrai dire la stessa cosa un giorno, ad un livello più profondo. Nessuno deve sentirsi costretto ad essere assolutamente e perfettamente “originale” in ogni parola che scrive. (Thomas Merton, A Thomas Merton Reader).
giovedì 21 febbraio 2013
Alle radici della responsabilità umana vi è il principio di perfezione, l'impulso a raggiungerla, l'intelligenza di trovare la strada giusta e la volontà di seguirla
Una forma molto insidiosa di paura è quella che si maschera come buon senso o addirittura saggezza, condannando come sciocchi, inconsulti, insignificanti o velleitari i piccoli atti di coraggio quotidiani che contribuiscono a salvaguardare la stima per se stessi e la dignità umana.
Non è facile per un popolo condizionato dai timori, soggetto alla regola ferrea che la ragione è del più forte, liberarsi dai debilitanti miasmi ¬della paura. Eppure, anche sotto la minaccia della macchina statale più schiacciante, il coraggio continua a risorgere poiché la paura non è lo stato naturale dell'uomo civile. La fonte del coraggio e della resistenza di fronte al potere scatenato è generalmente una salda fede nella sacralità dei princìpi etici combinata con la certezza storica che, malgra¬do tutte le sconfitte, la condizione umana abbia per fine ultimo il progresso spirituale e materiale. Ciò che distingue l'uomo dal bruto è la sua capacità di miglioramento e auto¬redenzione. Alle radici della responsabilità umana vi è il principio di perfezione, l'impulso a raggiungerla, l'intelligenza di trovare la strada giusta e la volontà di seguirla, se non fino alla fine, almeno per il tratto necessario a sollevar¬si al di sopra dei limiti personali e degli ostacoli contingenti. Ciò che conduce l’uomo a osare e a soffrire per edificare so¬cietà libere dal bisogno e dalla paura è la sua visione di un mondo fatto per un’umanità razionale e civilizzata. Non si possono accantonare come obsoleti concetti quali verità, giustizia e solidarietà, quando questi sono spesso gli unici baluardi che si ergono contro la brutalità del potere.
(Aung San Suu Kyi, Liberi dalla paura).
Non è facile per un popolo condizionato dai timori, soggetto alla regola ferrea che la ragione è del più forte, liberarsi dai debilitanti miasmi ¬della paura. Eppure, anche sotto la minaccia della macchina statale più schiacciante, il coraggio continua a risorgere poiché la paura non è lo stato naturale dell'uomo civile. La fonte del coraggio e della resistenza di fronte al potere scatenato è generalmente una salda fede nella sacralità dei princìpi etici combinata con la certezza storica che, malgra¬do tutte le sconfitte, la condizione umana abbia per fine ultimo il progresso spirituale e materiale. Ciò che distingue l'uomo dal bruto è la sua capacità di miglioramento e auto¬redenzione. Alle radici della responsabilità umana vi è il principio di perfezione, l'impulso a raggiungerla, l'intelligenza di trovare la strada giusta e la volontà di seguirla, se non fino alla fine, almeno per il tratto necessario a sollevar¬si al di sopra dei limiti personali e degli ostacoli contingenti. Ciò che conduce l’uomo a osare e a soffrire per edificare so¬cietà libere dal bisogno e dalla paura è la sua visione di un mondo fatto per un’umanità razionale e civilizzata. Non si possono accantonare come obsoleti concetti quali verità, giustizia e solidarietà, quando questi sono spesso gli unici baluardi che si ergono contro la brutalità del potere.
(Aung San Suu Kyi, Liberi dalla paura).
mercoledì 20 febbraio 2013
Una terapia per quanto imperfetta è la capacità di ridere di noi stessi, e anche quella di vederci come ci vedono gli altri è un’altra medicina.
Bisogna stare molto in guardia:
il fanatismo attecchisce con molta facilità, è più contagioso di qualsiasi virus.
Lo si può contrarre persino mentre si cerca di debellarlo o lo si sta combattendo.
Vi basterà leggere il giornale, o guardare il notiziario in televisione, per rendervi conto della facilità con cui la gente diventa fanaticamente antifanatica, antifondamentalista, con cui intraprende una crociata antijihad. In definitiva se non possiamo sconfiggere il fanatismo, possiamo quanto meno pensare di contenerlo. [...]
Una terapia per quanto imperfetta è la capacità di ridere di noi stessi, e anche quella di vederci come ci vedono gli altri è un’altra medicina. La capacità di esistere nel contesto di situazioni aperte, financo di imparare ad approfittare di queste situazioni, di apprezzare la diversità: anche questo può servire.
Non sto invocando un relativismo morale assoluto, certo che no: sto invece propugnando la necessità di immaginarsi a vicenda.
A ogni livello, anche il più banale e quotidiano: immaginarsi.
Immaginarci quando bisticciamo, quando ci lamentiamo, immaginarci nel preciso momento in cui sentiamo di avere ragione al cento per cento. Anche quando si ha ragione al cento per cento, e l’altro ha torto al cento per cento, anche in quel momento è utile immaginare l’altro. [...]
Molti anni fa, quand’ero bambino, la mia saggia nonna mi spiegò in parole semplici, la differenza fra un ebreo e un cristiano:
“Vedi i cristiani credono che il Messia sia già venuto una volta, e che certamente un giorno o l’altro tornerà. Gli ebrei sostengono che il Messia debba ancora venire. Su questa faccenda,” disse mia nonna, “si è spesa tanta rabbia, e ci sono state tante persecuzioni, massacri, odio... perché?” continuò, “Perché non possiamo semplicemente aspettare di vedere? Se il Messia arriva e dice: ‘Salve, è bello rivedervi’, allora gli ebrei ammetteranno di avere sbagliato. Se, d’altro canto, il Messia arrivando dice: ‘Piacere di conoscervi’, allora tutto il mondo cristiano dovrà chiedere scusa agli ebrei. Per intanto,” concluse la mia saggia nonna, “non resta che vivere e lasciar vivere”. Lei sì, era drasticamente immune dal fanatismo. Conosceva il segreto del vivere in situazioni aperte, entro conflitti non risolti, insieme alla diversità degli altri.
(Amos Oz, Contro il fanatismo).
il fanatismo attecchisce con molta facilità, è più contagioso di qualsiasi virus.
Lo si può contrarre persino mentre si cerca di debellarlo o lo si sta combattendo.
Vi basterà leggere il giornale, o guardare il notiziario in televisione, per rendervi conto della facilità con cui la gente diventa fanaticamente antifanatica, antifondamentalista, con cui intraprende una crociata antijihad. In definitiva se non possiamo sconfiggere il fanatismo, possiamo quanto meno pensare di contenerlo. [...]
Una terapia per quanto imperfetta è la capacità di ridere di noi stessi, e anche quella di vederci come ci vedono gli altri è un’altra medicina. La capacità di esistere nel contesto di situazioni aperte, financo di imparare ad approfittare di queste situazioni, di apprezzare la diversità: anche questo può servire.
Non sto invocando un relativismo morale assoluto, certo che no: sto invece propugnando la necessità di immaginarsi a vicenda.
A ogni livello, anche il più banale e quotidiano: immaginarsi.
Immaginarci quando bisticciamo, quando ci lamentiamo, immaginarci nel preciso momento in cui sentiamo di avere ragione al cento per cento. Anche quando si ha ragione al cento per cento, e l’altro ha torto al cento per cento, anche in quel momento è utile immaginare l’altro. [...]
Molti anni fa, quand’ero bambino, la mia saggia nonna mi spiegò in parole semplici, la differenza fra un ebreo e un cristiano:
“Vedi i cristiani credono che il Messia sia già venuto una volta, e che certamente un giorno o l’altro tornerà. Gli ebrei sostengono che il Messia debba ancora venire. Su questa faccenda,” disse mia nonna, “si è spesa tanta rabbia, e ci sono state tante persecuzioni, massacri, odio... perché?” continuò, “Perché non possiamo semplicemente aspettare di vedere? Se il Messia arriva e dice: ‘Salve, è bello rivedervi’, allora gli ebrei ammetteranno di avere sbagliato. Se, d’altro canto, il Messia arrivando dice: ‘Piacere di conoscervi’, allora tutto il mondo cristiano dovrà chiedere scusa agli ebrei. Per intanto,” concluse la mia saggia nonna, “non resta che vivere e lasciar vivere”. Lei sì, era drasticamente immune dal fanatismo. Conosceva il segreto del vivere in situazioni aperte, entro conflitti non risolti, insieme alla diversità degli altri.
(Amos Oz, Contro il fanatismo).
martedì 19 febbraio 2013
Questo sembra nulla, ma un tale atteggiamento è la base per scoprire che siamo amati
Dobbiamo accettare da Dio, con riconoscenza, l'esistenza e la vita, così come ci sono state donate. C'è chi non è soddisfatto e si lamenta di essere ciò che è.
Penso che siamo più o meno tutti in questa condizione.
Non siamo soddisfatti di quello che Dio ci ha dato, della parte che egli ci ha assegnato;
non vorremmo avere le difficoltà interiori che sentiamo,
essere soggetti a tentazioni che ci umiliano,
non vorremmo essere oppressi da quei complessi che ostacolano i nostri rapporti con gli altri uomini;
vorremmo, infine, essere degli altri, essere diversi da ciò che si è in realtà.
Inoltre, Dio ha creato il mondo, ed è prima di tutto attraverso questo mondo, così com'è, attraverso la nostra stessa esistenza, che dobbiamo imparare a scoprire l'amore di Dio per le creature. Dobbiamo amare tutto della creazione, non solo in linea di massima ma concretamente. È una tale disposizione di fede, di ottimismo vero e soprannaturale, che dava a certe dichiarazioni di papa Giovanni XXIII questa grazia particolare di comunicare la pace e la serenità a tanti uomini.
Siamo felici di essere come siamo, di esistere, felici di esistere ora nel nostro tempo!
Questo sembra nulla, ma un tale atteggiamento è la base per scoprire che siamo amati. Sappiamo trovare anche nelle nostre imperfezioni e nelle nostre debolezze il segno dell'amore di Dio! L'accettazione del nostro stato di povertà e di miseria spirituale dà occasione al Cristo di avvicinarsi a noi per guarirci.
Dobbiamo lasciarci guarire.
Avremmo preferito essere al posto del fariseo o del pubblicano, nel Tempio?
Perché non trovare un motivo di azione di grazia e un segno dell'amore di Dio nelle nostre debolezze?
È attraverso la debolezza dell'uomo che Dio manifesta la sua potenza. Senza la coscienza della nostra miseria come potremmo capire ciò che significa la parola «misericordia», questa inclinazione che è nel cuore del Cristo e che è in lui qualcosa di specificamente divino, che gli permette di affermare, nella pienezza, la sua divinità compatendo la nostra miseria e perdonando i nostri peccati?
Per noi, poveri peccatori, è il cammino di accesso verso Dio: sapersi amati al punto di essere totalmente perdonati; e, per mantenere questo sentimento alla base della nostra vita spirituale, ci occorrerà molto spirito di fede!
(René Voillaume, Pregare per vivere).
lunedì 18 febbraio 2013
Ognuno di noi, penso, ha occhi, intelligenza e sapienza dello Spirito per interrogarsi su quanto purtroppo in questi giorni sta avvenendo.
“Sai, don Angelo... il mio papà la Chiesa non l’accetta”.
Mi prende tristezza da morire al pensiero che una bambina di nove anni già porti questo peso sul cuore. Forse dovremmo sentirci più responsabili delle immagini che diamo della Chiesa.
Per non pesare sul volto di Gesù.
Per non pesare sul cuore dei piccoli.
E non solo dei piccoli, ma anche dei meno piccoli.
Parole usate come clave, volti induriti e inflessibili, toni definitori e arroganti, lo sguardo che ti giudica.
“Sei sotto l’occhio, come quando vai in una banca...”, mi diceva oggi una ragazza al telefono.
Sono atteggiamenti che tradiscono il volto di Gesù, fanno crescere nel cuore il peso dell’esclusione. È proprio così inutile chiederci di tanto in tanto:
queste parole, questi gesti, queste decisioni, questi toni quale immagine di Dio e quale immagine di Chiesa evocano in chi silenziosamente, spesso dalla sua distanza, interroga i segni? Immagini di accoglienza o immagini di esclusione?
Segni di Dio o dell’antidio?
Ognuno di noi, penso, ha occhi, intelligenza e sapienza dello Spirito per interrogarsi su quanto purtroppo in questi giorni sta avvenendo.
Per interrogarsi e per trarre qualche conclusione.
Darò ancora una volta prova della mia ingenuità:
come arrivare a esprimere disagio per l’immagine della non accoglienza?
E se cominciassimo a raccontare le storie che viviamo, quelle che soffriamo sulla pelle? Anche ai Vescovi, alle Congregazioni romane?
Raccontare la storia, semplicemente la storia della bambina di nove anni dal nome bellissimo.
E, ancora, se forti della convinzione che, la Chiesa, gli uomini e le donne del nostro tempo la intravedono anche in noi, testimoniassimo, a tutti il livelli, l’accoglienza – “Tu ... l’accetti?” – e non l’esclusione?
Se testimoniassimo l’immagine di una Chiesa non pietra d’inciampo, ma compagna di viaggio – e quale! – nella carovana dell’umanità?
Forse gli occhi della bambina sarebbero meno tristi, sul cuore le peserebbe meno dolore.
Forse sorriderebbero anche gli occhi di Gesù. (Angelo Casati, La fede sottovoce)
domenica 17 febbraio 2013
Come un jolly buttato sul tavolo, a tradimento, durante una partita di carte
«Prima della mia conversione non sopportavo che si pronunciasse la parola “Dio”:
la consideravo come un jolly buttato sul tavolo, a tradimento, durante una partita di carte.
Mi suonava come un modo per evitare i problemi e misconoscere la tragedia della vita.
Egli non abolisce il dramma dell’esistenza ma lo compie.
Distrugge ogni nostro idolo e ci riporta al dramma dell’”amore forte come la morte”?
È necessario che i credenti riconoscano tale dramma e vivano il secondo comandamento, il quale ci domanda di non pronunciare invano il nome di Dio.
I non credenti potranno intenderlo meglio».
Fabrice Hadjadj
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