sabato 9 marzo 2013

Quindi, riconciliazione non vuol dire essere uomini tranquilli, vuol dire assumere, prendere coscienza di questo dramma del mondo, di questa divisione, di questa non-fraternità, di questa non-riconciliazione.

Si parla molto di vita, ma se ne parla in maniera astratta. [...]
Parliamo sempre in termini idealistici, spiritualistici; quando si tratta della riconciliazione tutti ne convengono, ma quando entriamo nel concreto e vediamo che non è un termine unicamente spirituale, ma è anche materiale, economico, politico, allora non intendiamo più le cose. Ugualmente quando parliamo di fraternità, di uguaglianza, ecc. dobbiamo vedere in tutta la sua globalità che cosa significa questo. [...]
Lo stesso Gesù è entrato nel conflitto, la prova migliore, più chiara è proprio la sua morte. Se non fosse entrato nel conflitto, in questa divisione, se non avesse assunto la parte di quellio “che sono caricati di pesi insopportabili, mentre voi non muovete un dito”, forse sarebbe morto nel letto, l’avrebbero assunto in cielo, non so che sarebbe successo, certamente non sarebbe morto sulla croce. Quindi, riconciliazione non vuol dire essere uomini tranquilli, vuol dire assumere, prendere coscienza di questo dramma del mondo, di questa divisione, di questa non-fraternità, di questa non-riconciliazione. Viviamo in un mondo in cui la riconciliazione del Padre non è storicizzata, non è visibile, non è reale, non è concretizzata e quindi noi dobbiamo concretizzarla. [...]
Come renderla visibile?
Nella riconciliazione tra noi.
Che fare per realizzare questa riconciliazione tra noi? Da che parte devo partire? Qual è il luogo storico nel quale mi devo mettere per realizzare questa riconciliazione?
È dalla parte di quelli che sono stati esclusi, di quelli che sono fuori.
Non è certamente dalla parte degli escludenti, perché quelli che escludono vuol dire che non li vogliono, perciò dobbiamo metterci dalla parte di quelli che sono esclusi.
(Arturo Paoli, Progetto Gesù: una società fraterna).

venerdì 8 marzo 2013

Il sacrificio di uno può essere poco evidente: egli lo mette in atto continuando semplicemente la sua vita normale

L’etica del rispetto per la vita obbliga tutti, qualunque sia la loro situazione, ad occuparsi incessantemente di ogni processo umano e vitale che si compie intorno a loro, e a dare se stessi per colui che ha bisogno di aiuto e comprensione.
Non permette allo studioso di vivere soltanto per la scienza, anche se con questa si rende molto utile alla comunità.
Non lascia che l’artista viva solo per l’arte, anche se in tal modo è fonte d’ispirazione per molte persone.
Non tollera che l’uomo d’affari creda di adempiere ad ogni dovere nel corso delle sue attività professionali.
Chiede ad ogni persona di sacrificare una parte della propria vita per gli altri. In che modo e in che misura sia suo dovere farlo, ognuno deve deciderlo in base ai pensieri che sorgono in lui e alle circostanze della sua vita. Il sacrificio di uno può essere poco evidente: egli lo mette in atto continuando semplicemente la sua vita normale. A un altro si chiede qualche spettacolare rinuncia che lo obbliga a metter da parte ogni considerazione per la sua carriera. Nessuno si misuri col metro delle sue conclusioni sugli altri. Affinché si possa realizzare la bontà, il destino degli uomini deve compiersi in migliaia di modi diversi. La portata del sacrificio di ogni individuo resta segreta. Ma dobbiamo tutti renderci conto che la nostra esistenza raggiunge il suo vero valore soltanto quando abbiamo sperimentato in noi stessi la verità della massima: “Colui che avrà perduto la vita la troverà”. (Albert Schweitzer, Rispetto per la vita).

giovedì 7 marzo 2013

tieni conto, Signore, / che i miei capelli si sono fatti canuti

Signore, /
io sono il tuo schiavo sottomesso; /
non espormi, dunque, /
alla vendita /
nel giorno della mia vecchiaia. /
Sebbene non abbia a mio credito /
il minimo atto di devozione, /
tieni conto, Signore, /
che i miei capelli si sono fatti canuti /
nella fede alla Sottomissione. //
Se Tu mi vendi, /
un ferro incandescente /
marchierà la mia anima /
e sarà come il fuoco /
dell’inferno. /
Che mai si può attendere /
da un uomo /
che ha l’anima e il cuore /
consumati dal fuoco? /
 Che potrà fare un granellino di polvere /
nel giorno della Risurrezione? //
Tu che conosci i segreti, /
io Ti scongiuro /
nel nome della Tua gloria: /
non lasciarmi fra gli abbandonati, /
non torcermi come cera /
nella mano della Tua collera, /
non privarmi della Tua bontà. //
Dimentica tutto quello che ho fatto, /
nel bene e nel male; liberami da me stesso /
per la Tua grazia, /
perché ogni mia azione, /
buona o cattiva, /
non serve che a forgiare /
nuove gogne per il mio collo. //
Se non vuoi destarmi, /
considerami come morto /
nel mio sonno incurante. /
Io sono vile, sviato; Tu sei l’Altissimo, /
sollevami dalla mia bassezza. //
Rapisci il mio cuore, /
e fa’ che io perda /
coscienza di me stesso /
facendomi assorbire in Te. /
Troppe volte /
ho sbagliato. /
O mio Signore, /
salvami da me stesso//.
(Farīd ad-dīn ’Attār, Salvami da me stesso).

mercoledì 6 marzo 2013

così esiste un potere celeste che strema la molteplicità del peccato in un uomo

È possibile raccontare debitamente come l’amore copre una moltitudine di peccati, o non è esso ancora più molteplice della molteplicità del peccato?
Quando vede il giunco rotto (cf Is 42,3), sa coprire una moltitudine di peccati, che il giunco non finisca schiacciato sotto il peso.
Quando vede il lucignolo fumante, sa coprire una moltitudine di peccati, che la fiamma non finisca soffocata.
Quando ha trionfato su una moltitudine di peccati, sa coprire nuovamente la moltitudine, prepara tutto a festa per il ricevimento come ebbe a fare il padre del figliol prodigo, sta a braccia aperte e attende lo smarrito, ha dimenticato tutto e porta l’altro stesso a dimenticare tutto coprendo nuovamente una moltitudine di peccati, ché l’amore non piange neppure su una moltitudine di peccati – fosse così, la vedrebbe ancora, ma esso copre la moltitudine.
E quando il peccato oppone resistenza, diviene ancora più molteplice, mai stanco di affiancarlo fedelmente in squilibrato paio, non stanco di credere ogni cosa, di sperare ogni cosa, di accollarsi ogni cosa.
Quando il peccato s’indurisce contro l’amore e desidera sbarazzarsene, quando ripaga benevolenza con invettive e insulti e scherni, l’amore non rende oltraggio per oltraggio, benedice e non impreca. Quando il peccato odia l’amore per invidia, quando malignamente vuole indurre a peccare l’amore stesso, nella sua bocca non trova dolo, bensì preghiera e esortazione.
Quando però preghiere e esortazioni non fanno che eccitare il peccato e divengono un’occasione nuova per il suo moltiplicarsi, l’amore resta muto, ma non meno fedele – fidato come una donna, redime come fa una donna, “senza parole” (1 Pt 3, 1). Il peccato pensava di avere ottenuto che le loro vie si separassero, ma ecco l’amore gli è rimasto accanto. [...] Sì, come esiste un potere del peccato capace con la sua tenacia di consumare ogni buon sentimento in un uomo, così esiste un potere celeste che strema la molteplicità del peccato in un uomo, e questo potere è l’amore che copre una moltitudine di peccati.
(Søren Kierkegaard, Discorsi edificanti 1843).

martedì 5 marzo 2013

E la Chiesa tentata come te nel deserto, la Chiesa segnata come te dalle piaghe, questa tua Chiesa come non creduta.

Ai nostri peccati non guardare, Signore: / 
siamo tutti ugualmente colpevoli: / 
per l’umanità di tuo Figlio, perdonaci. // 

Sappiamo che la tua passione, Gesù, / 
deve compiersi in noi, nella Chiesa, tuo corpo, / 
ma non sempre abbiamo la forza, Signore. // 
Sappiamo che è legge dell’innocente soffrire / 
e piangere come se non fosse pianto / 
e sperare anche contro speranza. // 
Uno è infermo e non riesce a guarire, / 
uno è tradito e non sa perdonare, / 
uno è perseguitato e non sa accettare. // 

Fanciulli a milioni muoiono di fame; / 
donne e madri a milioni piangono / 
i loro figli e fratelli in guerre assurde. // 
Terremoti e pestilenze e alluvioni / 
ci colpiscono ad ogni stagione / 
e uscire di casa è come andare alla guerra. // 
Il denaro vale più del sangue fraterno, / 
i beni contesi come fossimo nemici / 
e il potente vuole sempre maggiore potenza. // 
Il negro non è neppure uomo; / 
i figli in rivolta sempre più numerosi; / 
continenti interi rifiutano ogni fede. // 

E la Chiesa tentata come te nel deserto, / 
la Chiesa segnata come te dalle piaghe, / 
questa tua Chiesa come non creduta. // 

Signore, insegnaci a essere beati nel pianto, / 
aiutaci a essere miti e liberi, / 
donaci un cuore puro e pacifico. // 
Signore, risali con noi nella barca, / 
non lasciarci soli nella grande bufera, / 
comanda al mare di placarsi ancora. // 
Ascendiamo a Gerusalemme a dire / 
tutti insieme la preghiera dell’orto: / 
unica speranza tua è la nostra Pasqua, Signore. // 
Ai nostri peccati non guardare, Signore: / 
ma guarda alla fede della tua Chiesa, / 
abbi pietà del tuo popolo di poveri, o Dio. // 
(Paolo VI, Salmodia della penitenza).

lunedì 4 marzo 2013

il bene comune esige talvolta l'espropriazione, se certi possedimenti sono di ostacolo alla prosperità collettiva, per via della loro estensione, del loro sfruttamento esiguo o nullo, della miseria che ne deriva per le popolazioni, del danno considerevole arrecato agli interessi del paese” (Populorum progressio, n. 24)

“I poveri sono i giudici della vita democratica di una nazione” e, perciò, sono anche l’espressione storica del giudizio di Dio su qualunque società umana. Il diritto delle persone, soprattutto dei più poveri, a una vita dignitosa è il vero bene supremo, a cui tutti gli altri diritti devono essere orientati e sottomessi, compreso il diritto alla proprietà privata della terra, che “non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto” (Populorum progressio, n. 23). Sarà sempre un diritto connesso al bene maggiore e comune della vita. Ricordiamo le parole profetiche di Paolo VI, che riassumeva la dottrina sociale della tradizione della Chiesa, affermando che “il bene comune esige talvolta l'espropriazione, se certi possedimenti sono di ostacolo alla prosperità collettiva, per via della loro estensione, del loro sfruttamento esiguo o nullo, della miseria che ne deriva per le popolazioni, del danno considerevole arrecato agli interessi del paese” (Populorum progressio, n. 24). Davanti a ciò, sono moralmente inaccettabili la concentrazione della proprietà della terra e il controllo esclusivo dell’accesso agli alimenti da parte del mercato capitalista. L’uso della terra a fini speculativi è contrario al Vangelo e alla dottrina sociale della Chiesa e non può essere accettato dalla coscienza etica dell’umanità. Sono altresì moralmente inaccettabili tutte le forme di privatizzazione e commercializzazione dell’acqua, bene indispensabile per la vita. [...] Perseguire il possesso e l’uso della terra e delle sue ricchezze, in vista del bene comune, e la lotta contro le diverse forme di concentrazione e di sfruttamento sono del tutto legittime e costituiscono un dovere per ogni persona cristiana. Sradicare la miseria e la fame è un imperativo etico. Esige una equa distribuzione dei benefici dell’uso delle risorse naturali e un medio ambiente salubre, propizio alla salute e al benessere di tutti. (“Os pobres possuirão a terra”, Pronunciamento de Bispos e Pastores Sinodais sobre a Terra, nn. 96-98).

domenica 3 marzo 2013

Il problema principale del servizio è quello di essere la “strada” senza essere di ostacolo.

Una vera educazione al servizio richiede un processo di auto-spoliazione difficile e spesso doloroso. Il problema principale del servizio è quello di essere la “strada” senza essere di ostacolo. E se esistono strumenti, tecniche e capacità da apprendere, questi sono anzitutto l’aratura del terreno, il taglio delle erbacce e la potatura dei rami, cioè l’eliminazione di tutto ciò che ostacola la crescita e lo sviluppo.
 L’educazione al servizio non è un’educazione ad arricchirsi bensì a farsi volontariamente poveri; non a soddisfare se stessi bensì a svuotarsi, non a conquistare Dio bensì ad arrendersi al suo potere salvifico.
Tutto questo è accettabile solo con grande fatica, nel mondo contemporaneo che parla dell’importanza del potere e dell’autorità. Eppure, è importante che in questo mondo ci sia ancora qualche voce a gridare che se c’è qualcosa di cui vantarsi, questa è soltanto la fragilità. La realizzazione di se stessi consiste nel vuoto, l’utilità nel divenire inutili, il potere nel perdere ogni potere. Ed è parte del nucleo del messaggio cristiano che Dio non si è mai rivelato come l’ “altro” che è potente, inavvicinabile nella sua onniscienza, onnipotenza e onnipresenza. Egli è venuto invece a noi in Gesù Cristo che “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso... e divenendo simile agli uomini, apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 6-8). È Dio stesso che rivela il moto della nostra vita spirituale.
Non è il moto dalla debolezza alla potenza ma il moto in cui abbiamo sempre meno paura, abbassiamo le nostre difese e ci apriamo sempre di più agli altri e al mondo, anche quando ciò conduce al dolore e alla morte. 
 (Henri J. M. Nouwen, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo).