È possibile raccontare debitamente come l’amore copre una moltitudine di peccati, o non è esso ancora più molteplice della molteplicità del peccato?
Quando vede il giunco rotto (cf Is 42,3), sa coprire una moltitudine di peccati, che il giunco non finisca schiacciato sotto il peso.
Quando vede il lucignolo fumante, sa coprire una moltitudine di peccati, che la fiamma non finisca soffocata.
Quando ha trionfato su una moltitudine di peccati, sa coprire nuovamente la moltitudine, prepara tutto a festa per il ricevimento come ebbe a fare il padre del figliol prodigo, sta a braccia aperte e attende lo smarrito, ha dimenticato tutto e porta l’altro stesso a dimenticare tutto coprendo nuovamente una moltitudine di peccati, ché l’amore non piange neppure su una moltitudine di peccati – fosse così, la vedrebbe ancora, ma esso copre la moltitudine.
E quando il peccato oppone resistenza, diviene ancora più molteplice, mai stanco di affiancarlo fedelmente in squilibrato paio, non stanco di credere ogni cosa, di sperare ogni cosa, di accollarsi ogni cosa.
Quando il peccato s’indurisce contro l’amore e desidera sbarazzarsene, quando ripaga benevolenza con invettive e insulti e scherni, l’amore non rende oltraggio per oltraggio, benedice e non impreca. Quando il peccato odia l’amore per invidia, quando malignamente vuole indurre a peccare l’amore stesso, nella sua bocca non trova dolo, bensì preghiera e esortazione.
Quando però preghiere e esortazioni non fanno che eccitare il peccato e divengono un’occasione nuova per il suo moltiplicarsi, l’amore resta muto, ma non meno fedele – fidato come una donna, redime come fa una donna, “senza parole” (1 Pt 3, 1). Il peccato pensava di avere ottenuto che le loro vie si separassero, ma ecco l’amore gli è rimasto accanto. [...] Sì, come esiste un potere del peccato capace con la sua tenacia di consumare ogni buon sentimento in un uomo, così esiste un potere celeste che strema la molteplicità del peccato in un uomo, e questo potere è l’amore che copre una moltitudine di peccati.
(Søren Kierkegaard, Discorsi edificanti 1843).
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