sabato 19 ottobre 2013

Credi di avere una memoria

La memoria è un mostro:
tu dimentichi… essa no.
Archivia le cose, ecco tutto.
Le conserva per te, o te le nasconde
e le richiama, per fartele ricordare,
a sua volontà.
Credi di avere una memoria.
Ma è la memoria che ha te.
(John Irving)

venerdì 18 ottobre 2013

L'uomo non può salvarsi per mezzo delle proprie opere, per quanto buone esse siano. Egli deve diventare l'opera di Dio. Egli deve farsi tra le mani di Dio più malleabile e docile dell’argilla nelle mani del vasaio


 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

Più povero del bosco morto - cap. 11


Qui Francesco tacque. Tutta la sua attenzione parve concentrata nel suo lavoro. Ma Leone, al suo fianco, sentiva ch'egli aveva qualcosa d'essenziale e di intimo, che non riusciva ad esprimere. Furono pochi istanti di silenzio che a Leone sembrarono lunghissimi. Leone avrebbe voluto parlare, avrebbe voluto dir qualcosa per colmare quel silenzio; ma se ne trattenne per un senso di discrezione. Infine, Francesco si rivolse verso di lui e lo fissò con uno sguardo pieno di bontà.
Sì, frate Leone - aggiunse Francesco con molta calma - l'uomo è grande soltanto quando supera il proprio lavoro per non vedere che Dio. Soltanto allora egli attinge l'intera sua statura di uomo. Ma questo è difficile, molto difficile. Bruciare un paniere di vimini, opera nostra, non è nulla, anche se il paniere è riuscito bene. Ma staccarsi dall'opera di tutta una vita è ben altra cosa, che supera le forze dell'uomo.
- Per seguire il richiamo di Dio, uno si dedica tutto ad un'opera, con passione e con entusiasmo. È bene e necessario che sia così. L'entusiasmo solo è creatore. Ma creare qualcosa significa imporle la nostra firma e significa impossessarcene. Allora il servo di Dio si espone al suo più grande pericolo. L'opera compiuta diventa per l'autore che vi si attacca, il centro del mondo: essa lo mette in uno stato di indisponibilità radicale. Potrà liberarsene solo a costo d'una frattura. Grazie a Dio, tale frattura può prodursi. Ma i mezzi di cui dispone la Provvidenza per ottenerla sono terribili. Essi consistono nell'incomprensione, nella contraddizione, nella sofferenza e nello scacco. E, talora, anche nello stesso peccato, permesso da Dio. La vita di fede subisce allora la sua crisi, la più profonda e la più decisiva. Né può evitarsi questa crisi che, prima o poi, si produce in tutte le condizioni della vita. L'uomo s'è dedicato, anima e corpo, all'opera sua e s'è illuso di dedicarla alla gloria di Dio. Senonché, Dio par che lo abbandoni a se stesso e non si interessi del suo lavoro. Anzi, par che Dio gli chieda di rinunciare al suo lavoro, d'abbandonare l'opera alla quale l'uomo ha dedicato per anni ed anni tutte le proprie forze, ora nella gioia ed ora nel dolore.
«Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami tanto, e va nel paese di Moria ed offrilo in olocausto». Questa terribile ingiunzione rivolta da Dio ad Abramo, non c'è servo di Dio che non se la senta rivolgere un giorno a se stesso. Abramo aveva prestato fede alla promessa che Dio gli aveva fatta di dargli una discendenza; per vent'anni aveva atteso che tale promessa si realizzasse. Non aveva perso ogni speranza. E quando finalmente nacque il figlio, frutto della promessa divina, Dio ingiunse ad Abramo di sacrificarglielo, senza nessuna spiegazione. Fu un colpo ben duro e incomprensibile. Orbene, anche a noi, un giorno o l'altro, Dio fa la stessa ingiunzione. Fra Dio e l'uomo par che non si parli più la stessa lingua. Essi non si intendono più. Dio aveva chiamato e l'uomo aveva risposto. Ora è l'uomo che chiama, ma Dio non risponde. È un momento tragico, questo, in cui la vita religiosa confina con la disperazione: l'uomo lotta da solo, nelle tenebre con l'inafferrabile. Egli aveva creduto che gli sarebbe bastato fare questo o quello per entrare nelle grazie di Dio. Ma è lui che Dio vuole. L'uomo non può salvarsi per mezzo delle proprie opere, per quanto buone esse siano. Egli deve diventare l'opera di Dio. Egli deve farsi tra le mani di Dio più malleabile e docile dell’argilla nelle mani del vasaio. Deve farsi più cedevole e paziente dei vimini tra le mani del panieraio. Deve farsi più povero e più abbandonato dei rami secchi nei boschi d'inverno. Solo in virtù di questo stato di abbandono e di questo voto di povertà, l'uomo può aprire a Dio un credito illimitato, offrendogli l'iniziativa assoluta della propria vita e della propria salvezza. L'uomo accede, in tal modo, ad uno stato di santa obbedienza. Egli si fa bambino e partecipa al gioco divino della creazione. Ben oltre la gioia e il dolore, l'uomo attinge l'ebbrezza e la potenza. Egli può considerare con la stessa gravità e con la stessa allegria il sole e la morte.
Leone taceva. Non aveva più voglia di far domande. Benché non capisse tutto ciò che Francesco diceva, Leone non aveva mai visto tanto chiaro e profondo nell'anima del Padre. Leone era soprattutto colpito dalla calma con cui Francesco parlava di quelle cose gravi che non poteva conoscere se non per esperienza. Allora si sovvenne di quel che Francesco gli aveva detto un giorno: «L'uomo conosce solo quanto esperimenta». Tutto quello che aveva detto, Francesco doveva averlo sperimentato. Si sentiva tanta voce di verità nelle sue parole. Leone si sentì colmato di dolcezza e di sgomento al solo pensiero d'essere il confidente privilegiato di una siffatta esperienza. Francesco procedeva nel suo lavoro, e intrecciava vimini con mano ferma, come se stesse giocando.

giovedì 17 ottobre 2013

dobbiamo mantenere acceso in noi lo spirito di orazione. Questa è la cosa più importante.


 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

Più povero del bosco morto - cap. 11

Leone rimase a bocca aperta. Benché conoscesse bene Francesco, le sue reazioni gli riuscivano sempre sorprendenti. Questa volta il gesto di Francesco gli sembrava troppo severo.
- Padre, non ti capisco. Se si dovesse bruciare tutto ciò che ci distrae nella preghiera, non si finirebbe più - mormorò Leone al termine di un breve silenzio.
Francesco non rispose.
Sai bene - aggiunse Leone che frate Silvestro faceva assegnamento su quel paniere. Ne aveva bisogno e lo aspettava con una certa impazienza.
Sì, lo so ribatté Francesco. - Gliene farò un altro al più presto. Ma questo dovevo bruciarlo. Era urgente.
Il paniere aveva finito di bruciare. Francesco ne soffocò l'ultima fiammella sotto una pietra. Poi, prendendo Leone per un braccio, gli disse:
- Vieni! Ti dirò perché l'ho fatto.
Francesco condusse Leone non lontano da lì, presso una siepe di vimini. Ne tagliò qualche verga flessibile. Poi, messosi a sedere, cominciò a intrecciare un nuovo paniere. Leone s'era seduto al suo fianco, in attesa delle spiegazioni del Padre.
- Io voglio lavorare con le mie mani - dichiarò Francesco - e voglio che tutti i miei frati mi seguano nel lavoro. Non per la bramosia del guadagno; ma solo per dare il buon esempio e tenere lontano l'ozio. Non v'è nulla di più triste di una comunità che non lavora! Ma il lavoro non è tutto, frate Leone, e non risolve tutti i problemi. Il lavoro può anche costituire un ostacolo alla vera libertà dell'uomo; e lo diventa ogni qualvolta l'uomo si lascia assorbire dal suo lavoro fino a trascurare di rendere adorazione al Dio vivo e vero. Pertanto, dobbiamo mantenere acceso in noi lo spirito di orazione. Questa è la cosa più importante.
- Capisco, Padre - rispose frate Leone. - Ma noi non possiamo distruggere il nostro lavoro, ogni qualvolta ci insinui distrazioni nella preghiera.
- Certamente - ribatté Francesco. - Ciò che importa è disporci a sacrificarlo al Signore. A questa sola condizione l'uomo conserva la sua anima disponibile. Sotto la legge antica gli uomini sacrificavano a Dio le primizie dei loro raccolti e dei loro armenti; essi non esitavano a spogliarsi delle loro cose più belle. Era questo un atto di adorazione, ma anche di liberazione; in tal modo l'uomo serbava ben aperta l'anima sua. I suoi sacrifici ne allargavano l'orizzonte fino all'infinito. Era questo il segreto della sua libertà e della sua grandezza.

mercoledì 16 ottobre 2013

poco fa, durante la orazione, il ricordo di quel paniere mi ha distratto,


 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

Più povero del bosco morto - cap. 11

Un filo di fumo azzurrino s'alzava nell'aria ai margini del bosco, in prossimità dell'eremo. Saliva quel po' di fumo, leggero e diritto, senza flettersi sotto i colpi d'ala del vento. Calmo e slanciato, come gli alberi, pareva che quel fumo facesse parte del paesaggio. Eppure, frate Leone, n'era preoccupato. Quel fumo era del tutto insolito. Chi, dunque, aveva acceso quel fuoco sul fare del giorno? Leone volle sincerarsene. Avanzò di qualche passo, scostò qualche ramo e vide a un tiro di pietra Francesco stesso accanto ad un modesto fuoco. Cosa mai stava bruciando? Lo vide chinarsi, raccogliere una pigna e gettarla tra le fiamme.
- Cosa bruci, Padre? - chiese Leone.
- Un paniere - rispose Francesco con semplicità.
Leone guardò più da vicino e riconobbe i resti di un paniere di vimini che finiva di bruciare.
- Spero che non si tratti del paniere che stavi confezionando in questi giorni.
- Sì, per l'appunto - ribatté Francesco.
- Perché l'hai bruciato? Non lo consideravi ben fatto? - chiese Leone stupito.
- Molto ben fatto. Anzi, troppo ben fatto aggiunse Francesco.
- Ma, allora, perché l'hai bruciato?
- Perché, poco fa, durante la orazione, il ricordo di quel paniere mi ha distratto, fino ad accaparrare tutta la mia attenzione. Era giusto, pertanto, ch'io, rincasando, lo sacrificassi al Signore - spiegò Francesco.

martedì 15 ottobre 2013

Il volto di Francesco era di nuovo illuminato meravigliosamente di un’espressione infantile. Era come se il Creato fiorisse ai suoi occhi, tutto imbevuto dell’innocenza divina e il miracolo della vita gli si svelasse in tutta la sua primordiale freschezza.




 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

Non si può impedire al sole di illuminare il mondo - cap. 10

Era piacevole camminare nell’aria fresca della sera. Il cielo s’era fatto color indaco scuro. Le stelle s’accendevano ad una ad una. Francesco e Leone entrarono nel folto del bosco. Era nata la luna. Il suo chiarore investiva la cima degli alberi, calava lungo i rami tra le foglie fino a raggiungere il sottobosco dove si dissolveva in gocce d’argento sulle felci e sui mirtilli. La foresta era invasa per ogni dove di luce. Era una luce verde, dolce, accogliente, che lasciava vedere lontano nel folto. Sui tronchi degli alberi secolari luccicavano il lichene ed il muschio come una polvere di stelle. Frate Leone pensò che la selva attendesse qualcuno, tant’era bella e viva nei suoi giochi d’ombra e di luce. Aleggiava un buon profumo di cortecce, di selci, di menta e d’altri mille fiori invisibili. I due frati camminavano in silenzio. Dinanzi ad essi una volpe saltò fuori da un cespuglio ed entrò in un fascio di luce; il suo pelo rossigno per un istante prese fuoco. Poi la volpe scomparve nel buio, emettendo sordi guaiti. Una vita segreta veniva destandosi. Gli uccelli notturni si chiamavan tra loro; salivan bisbigli innumerevoli dal folto del sottobosco. Uscito in una radura. Francesco si arrestò a mirare il cielo. Le stelle pendevano a grappoli, sembravano vive anch’esse. La notte era bella, chiara e serena. Francesco aspirò profondamente il buon profumo del bosco. Tutta quella vita invisibile, fremente e profonda d’intorno a lui non costituiva ai suoi occhi una potenza tenebrosa e spaventosa. Essa non incuteva paura. Da opaca che era, s’era fatta luminosa. Essa gli rivelava in trasparenza la bontà divina, sorgente di tutte le cose. Francesco riprese il cammino cantando. La dolcezza di Dio lo aveva conquistato. La grande e forte dolcezza di Dio.
- Tu solo sei buono. Tu sei il Bene, tutto il Bene. Tu sei la nostra grande dolcezza. Tu sei la nostra vita eterna, grande e ammirabile Signore ripeteva Francesco.
Egli cantava queste lodi del Signore su motivi musicali che veniva improvvisando. Al colmo della letizia, Francesco colse da terra due pezzi di legno e, posatone uno sul braccio sinistro, si mise a fregarlo con l’altro legno, come se sfiorasse con l’archetto le corde d’una viola. Leone lo guardava. Il suo viso era luminoso. Francesco camminava, cantava e mimava l’accompagnamento del suo canto. E Leone stentava a seguirlo.
D’improvviso Francesco rallentò il passo. Leone s’avvide, con stupore, che il suo viso non era più lo stesso di prima. Appariva afflitto. Francesco continuava a cantare; ma anche il canto aveva voce di lacrime.
- O Tu che ti degnasti morire per amore del mio amore - diceva Francesco in un gemito - possa la dolce violenza del Tuo Amore farmi morire per amor del Tuo amore.
Leone allora si convinse che Francesco in quel momento vedeva il suo Signore pendere dalla croce. Lo vedeva al termine d’una lunga agonia, in lotta tra la vita e la morte, ridotto ad un cencio umano. La sua felicità lo aveva reso capace di vedere Dio Crocifisso. I due pezzi di legno che aveva tra le mani gli eran caduti per terra. Poi Francesco riprese la sua litania di lodi al Signore con un tono di voce più forte che risuonava chiara; nella notte tra gli alberi del bosco.
- Tu sei il Bene, tutto il Bene, grande e ammirabile Signore, Salvatore misericordioso!
Questo rituffo nella gioia non mancò di sorprendere Leone. La vista del Crocefisso non aveva offuscato la gioia di Francesco. Al contrario. E Leone pensò che essa ne fosse la vera sorgente, pura e inesauribile. Quella immagine di obbrobrio e di dolore era la luce che illuminava il cammino del Santo e gli rivelava l’armonia del Creato. Questa luce rivelava ai suoi occhi, ben oltre tutte le brutture e i misfatti del mondo, il Creato pacificato e colmo di quella sovrana Bontà che è all’origine di tutte le cose.
Il volto di Francesco era di nuovo illuminato meravigliosamente di un’espressione infantile. Era come se il Creato fiorisse ai suoi occhi, tutto imbevuto dell’innocenza divina e il miracolo della vita gli si svelasse in tutta la sua primordiale freschezza.
I due frati attraversarono una radura. Sulle soglie del bosco apparve loro un branco di cervi. Immobili,
a testa alta, i cervi guardaron passare quell’uomo libero che cantava. Non parvero per nulla spaventati i cervi. Allora Leone comprese che stava vivendo un evento eccezionale. Sì, era vero che la foresta stesse aspettando qualcuno. Tutti gli alberi, e quei cervi e quelle stelle attendevano il transito dell’uomo fraterno. Da gran tempo la natura viveva in questa aspettativa; forse da millenni. Ma quella sera un misterioso istinto le diceva che il prodigio si sarebbe compiuto. E Francesco era lì presente, in mezzo alla natura, e ne scioglieva i nodi per la virtù del suo cant

lunedì 14 ottobre 2013

Del resto, nel Vangelo, tutto è concatenato. Basta cominciare da una estremità della catena. Non si può disporre di una virtù evangelica, se non si possiedono tutte le altre.



 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

Non si può impedire al sole di illuminare il mondo - cap. 10

E’ l’ometto stupito sillabò distintamente: - Spe-ran-za.
In quel momento il padre rincasò, al termine del suo lavoro nei campi. Era un uomo corpulento, vestito d’una tunica color cenere; aveva le gambe nude e grigie di polvere, il viso bruciato dal sole, le maniche rimboccate su un paio di braccia robuste ed abbronzate. S’avvicinò ai frati con un largo sorriso illuminato dal sole dell’intera giornata.
-Buonasera, fratelli - esclamò. - Avete avuto la buona idea di venire stasera. Ho terminato il mio lavoro un po’ prima del solito. Allora, avete visto il piccino! Sta molto meglio, non è vero? È proprio miracoloso.
La sua persona emanava, nel suo complesso, un senso di forza e di semplicità. La stessa stanchezza non attenuava quell’impressione di calma serena. Al contrario, la stanchezza gli conferiva maggior peso.
- Resterete a cena con noi? - chiese il buon uomo ai frati, in tono amichevole e perentorio.
Poi, come riprendendosi, aggiunse:
- Un istante, prego. Vado a lavarmi la faccia e torno subito.
Tornò, infatti, poco dopo, con la faccia ben lavata. Invitò gli ospiti in casa per la cena che fu semplicissima: una minestra casalinga e un po’ di verdura. Un pasto da povera gente, come piaceva a Francesco.
Dopo il pasto, uscirono tutti in giardino dietro la casa. Il gran caldo della giornata era cessato. Il sole era scomparso all’orizzonte; ma il suo fulgore persisteva tenace. Laggiù, sulla collina, dove il sole era tramontato, pochi cipressi neri spiccavano su un cielo d’oro arancione e rosa, e l’ombra loro si prolungava smisurata sui campi. L’aria era dolce e tranquilla. Tutta la famiglia si sedette sull’erba, sotto il melo. Gli sguardi si fissarono tutti su Francesco. Ci fu una pausa di silenzio e di attesa. Infine il padre di famiglia prese la parola e disse:
- Mia moglie ed io ci chiediamo da tempo cosa potremmo fare per vivere in modo più perfetto. Non possiamo, s’intende, abbandonare i nostri figlioli per viver la vita dei frati. Come fare allora?
- Vi basta praticare il Santo Vangelo nelle condizioni e nello stato assegnatovi dal Signore rispose Francesco.
- Ma in concreto come dobbiamo agire ed operare? - chiese il padre.
- Il Signore - rispose Francesco - ci dice, ad esempio, nel Vangelo: «Il più grande di voi sia come il più piccolo, e il capo sia come il servo». Ebbene, questa massima vale per tutte le comunità, compresa la famiglia. Il capo di famiglia, al quale dobbiamo obbedienza e che è considerato il maggiore fra i familiari, deve considerarsi come l’ultimo d’essi e farsi il servitore di tutti i suoi. Egli prenderà cura di ognuno d’essi con la stessa bontà che vorrebbe ricevere se fosse al posto loro. E sarà dolce e generoso verso tutti. E se qualcuno sbaglia, anziché irritarsi con lui, lo riprenderà con pazienza e con dolcezza. In questo consiste il vivere secondo il Vangelo. Partecipa, invero, allo Spirito del Signore colui che agisce in questo modo. Non è necessario, come vedete, far grandi sogni, basta attenersi alla semplicità del Vangelo e, soprattutto, prenderla sul serio.
- Un altro esempio - proseguì Francesco. - Il Signore dice nel Vangelo: «Beati i poveri di spirito, giacché è loro il Regno dei cieli». Ebbene, cosa significa esser poveri di spirito? Vi sono molti che pregano a lungo e si umiliano spesso in digiuni e macerazioni. Ma per una sola parola che suoni ad essi come un insulto, o per un oggetto che venga loro tolto, essi si scandalizzano subito e subito protestano. Costoro non sono poveri di spirito: giacché, colui che ha un vero spirito di povero, odia se stesso ed ama chi lo schiaffeggia.
«Potrei aggiungere altri esempi e applicazioni. Del resto, nel Vangelo, tutto è concatenato. Basta cominciare da una estremità della catena. Non si può disporre di una virtù evangelica, se non si possiedono tutte le altre. Pertanto, non si può essere veramente povero secondo il Vangelo, senza essere veramente umile. E nessuno è veramente umile, se non si sottomette a tutte le creature, e innanzitutto alla Santa Chiesa, nostra Madre comune. E questo non può ottenersi senza una grande fiducia nel Signore Gesù, che non trascura mai i suoi figli, e nel Padre che conosce i loro bisogni. Lo Spirito del Signore è uno e indivisibile. È uno spirito di infanzia, di pace, di misericordia e di gioia».
Francesco parlò ancora a lungo su questo argomento. Per quella gente semplice e aperta l’ascoltarlo costituiva un vero godimento. Ma la notte cominciava a calare. Essa s’impigliava nei grossi rami nodosi dell’orto. Cominciava a far freddo. I bambini, i due maggiori, rannicchiati contro il nonno, cominciavano ad essere irrequieti e a volersi muovere. Francesco e Leone, dovendo rincasare, si alzarono e presero congedo dai loro ospiti.

domenica 13 ottobre 2013

Dovremmo ringraziarlo sempre - soggiunse il vecchio con tono grave. - Anche quando le cose non avvengono secondo i nostri desideri. Ma è tanto difficile



 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

Non si può impedire al sole di illuminare il mondo - cap. 10

Leone ascoltava sopra pensiero, camminando davanti a Francesco. Ma a mano a mano che procedeva, sentiva il suo cuore farsi più leggero e pieno di pace.
I due frati giunsero poco dopo in vista del piccolo casolare. Non appena entrati nella corte, furono accolti dalla donna che, in piedi sulla soglia di casa, pareva attenderli. Quando li vide, corse loro incontro. Il suo volto era raggiante.
- Fratello mio - esclamò la donna rivolta a Francesco - ero sicura che sareste venuto stasera. Prevedevo la vostra visita. Se sapeste come sono felice! Il mio piccino sta molto meglio. Ha potuto prendere un po’ di cibo in questi giorni. Non so come ringraziarvi.
- Dio sia lodato! - esclamò Francesco. Lui che dovete ringraziare.
Poi, seguito da Leone, Francesco entrò nella casupola, s’avvicinò al lettino e si chinò sul fanciullo che gli fece un bel sorriso. La madre ne fu felice. Era evidente che il bambino aveva preso a rivivere. Frattanto, il nonno rincasò coi due maggiori che gli trottavano intorno. Era un uomo ancora agile, dal viso sereno e dagli occhi chiari.
- Buonasera, fratelli - esclamò il nonno. - Come siete buoni d’esser venuti a trovarci. Siamo stati in ansia per via del piccino. Ma adesso par che tutto s’accomodi.
- Ne sono molto felice e ne rendo grazie al Signore - disse Francesco.
- Dovremmo ringraziarlo sempre - soggiunse il vecchio con tono grave. - Anche quando le cose non avvengono secondo i nostri desideri. Ma è tanto difficile. Noi non siamo mai all’altezza della speranza. Quand’ero giovane, chiedevo talora i conti al Signore, se le cose non andavano come avrei desiderato. E se Iddio non mi prestava ascolto, me ne sentivo turbato ed anche irritato. Adesso non chiedo più nessun conto a Dio. Ho capito quanto fosse ingenua e ridicola la mia pretesa. Dio è come il sole: visibile o nascosto che sia, non cessa di raggiare. Provate ad impedirglielo! Ebbene, del pari, non si può impedire a Dio d’essere misericordioso.
- È vero - soggiunse Francesco. - Dio è il bene e non può volere altro che il bene. Ma, a differenza del sole che fa luce senza di noi, e al di sopra di noi, Dio ha voluto che la sua volontà passasse attraverso il cuore degli uomini. È questa una cosa meravigliosa e anche spaventosa. Dipende da ciascuno di noi che gli uomini godano o non godano della misericordia divina. Perciò la bontà è una cosa così grande.
I due bambini che si tenevano stretti alle gambe del nonno, fissavano i due frati con grandi occhi stupiti ed ansiosi. Anziché ascoltare, guardavano soltanto. Era questo il loro modo di ascoltare. Il volto di Francesco ed il suo modo di parlare facevano ad essi una grande impressione. Essi erano affascinati dalla sua vitalità e dalla sua dolcezza.
- Orsù, diamoci alla gioia - proruppe Francesco all’improvviso. - Il piccolo sta meglio e noi dobbiamo rallegrarcene.
E, rivolgendosi al fratellino maggiore che continuava a fissarlo:
- Vieni, mio piccolo ometto - gli disse. Voglio farti vedere una bella cosa.
Francesco lo prese per mano e lo condusse nella corte. Tutti gli altri lo seguirono. E la sorellina non fu l’ultima a uscire per vedere che cosa sarebbe successo.
- Ho portato dei semi di fiori - disse Francesco, mostrando il sacchetto al bambino. - Sono fiori bellissimi. Ma dove li semineremo?
Francesco diede un colpo d’occhio in giro alla corte. A pié del muro, sotto le finestre, c’era un vecchio trogolo di pietra che già aveva dovuto servire d’abbeveratoio per le bestie. Era pieno di terra e di foglie morte e d’erbacce.
- Questo trogolo - disse il nonno - farà benissimo al caso nostro.
Francesco cominciò a strappare le erbacce, rimosse la terra e vi buttò dentro i piccoli semi. Tutti gli sguardi seguivano la sua mano lesta, cercando di scorgere i semi che ne cadevano minuscoli.
Perché fai questo? - chiese il bambino che non capiva.
- Perché quando tu vedrai i fiori aprirsi al sole e ridere in tutto il loro fulgore - rispose Francesco intento al suo lavoro - anche tu riderai esclamando: «Ha fatto cose bellissime il buon Dio».
- E come si chiamano questi piccoli fiori? chiese ancora il bambino.
- Non lo so - replicò Francesco. - Ma se vuoi, li chiameremo «Speranza». Ti ricordi questo nome? Sono i fiori di speranza.