venerdì 18 ottobre 2013

L'uomo non può salvarsi per mezzo delle proprie opere, per quanto buone esse siano. Egli deve diventare l'opera di Dio. Egli deve farsi tra le mani di Dio più malleabile e docile dell’argilla nelle mani del vasaio


 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

Più povero del bosco morto - cap. 11


Qui Francesco tacque. Tutta la sua attenzione parve concentrata nel suo lavoro. Ma Leone, al suo fianco, sentiva ch'egli aveva qualcosa d'essenziale e di intimo, che non riusciva ad esprimere. Furono pochi istanti di silenzio che a Leone sembrarono lunghissimi. Leone avrebbe voluto parlare, avrebbe voluto dir qualcosa per colmare quel silenzio; ma se ne trattenne per un senso di discrezione. Infine, Francesco si rivolse verso di lui e lo fissò con uno sguardo pieno di bontà.
Sì, frate Leone - aggiunse Francesco con molta calma - l'uomo è grande soltanto quando supera il proprio lavoro per non vedere che Dio. Soltanto allora egli attinge l'intera sua statura di uomo. Ma questo è difficile, molto difficile. Bruciare un paniere di vimini, opera nostra, non è nulla, anche se il paniere è riuscito bene. Ma staccarsi dall'opera di tutta una vita è ben altra cosa, che supera le forze dell'uomo.
- Per seguire il richiamo di Dio, uno si dedica tutto ad un'opera, con passione e con entusiasmo. È bene e necessario che sia così. L'entusiasmo solo è creatore. Ma creare qualcosa significa imporle la nostra firma e significa impossessarcene. Allora il servo di Dio si espone al suo più grande pericolo. L'opera compiuta diventa per l'autore che vi si attacca, il centro del mondo: essa lo mette in uno stato di indisponibilità radicale. Potrà liberarsene solo a costo d'una frattura. Grazie a Dio, tale frattura può prodursi. Ma i mezzi di cui dispone la Provvidenza per ottenerla sono terribili. Essi consistono nell'incomprensione, nella contraddizione, nella sofferenza e nello scacco. E, talora, anche nello stesso peccato, permesso da Dio. La vita di fede subisce allora la sua crisi, la più profonda e la più decisiva. Né può evitarsi questa crisi che, prima o poi, si produce in tutte le condizioni della vita. L'uomo s'è dedicato, anima e corpo, all'opera sua e s'è illuso di dedicarla alla gloria di Dio. Senonché, Dio par che lo abbandoni a se stesso e non si interessi del suo lavoro. Anzi, par che Dio gli chieda di rinunciare al suo lavoro, d'abbandonare l'opera alla quale l'uomo ha dedicato per anni ed anni tutte le proprie forze, ora nella gioia ed ora nel dolore.
«Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami tanto, e va nel paese di Moria ed offrilo in olocausto». Questa terribile ingiunzione rivolta da Dio ad Abramo, non c'è servo di Dio che non se la senta rivolgere un giorno a se stesso. Abramo aveva prestato fede alla promessa che Dio gli aveva fatta di dargli una discendenza; per vent'anni aveva atteso che tale promessa si realizzasse. Non aveva perso ogni speranza. E quando finalmente nacque il figlio, frutto della promessa divina, Dio ingiunse ad Abramo di sacrificarglielo, senza nessuna spiegazione. Fu un colpo ben duro e incomprensibile. Orbene, anche a noi, un giorno o l'altro, Dio fa la stessa ingiunzione. Fra Dio e l'uomo par che non si parli più la stessa lingua. Essi non si intendono più. Dio aveva chiamato e l'uomo aveva risposto. Ora è l'uomo che chiama, ma Dio non risponde. È un momento tragico, questo, in cui la vita religiosa confina con la disperazione: l'uomo lotta da solo, nelle tenebre con l'inafferrabile. Egli aveva creduto che gli sarebbe bastato fare questo o quello per entrare nelle grazie di Dio. Ma è lui che Dio vuole. L'uomo non può salvarsi per mezzo delle proprie opere, per quanto buone esse siano. Egli deve diventare l'opera di Dio. Egli deve farsi tra le mani di Dio più malleabile e docile dell’argilla nelle mani del vasaio. Deve farsi più cedevole e paziente dei vimini tra le mani del panieraio. Deve farsi più povero e più abbandonato dei rami secchi nei boschi d'inverno. Solo in virtù di questo stato di abbandono e di questo voto di povertà, l'uomo può aprire a Dio un credito illimitato, offrendogli l'iniziativa assoluta della propria vita e della propria salvezza. L'uomo accede, in tal modo, ad uno stato di santa obbedienza. Egli si fa bambino e partecipa al gioco divino della creazione. Ben oltre la gioia e il dolore, l'uomo attinge l'ebbrezza e la potenza. Egli può considerare con la stessa gravità e con la stessa allegria il sole e la morte.
Leone taceva. Non aveva più voglia di far domande. Benché non capisse tutto ciò che Francesco diceva, Leone non aveva mai visto tanto chiaro e profondo nell'anima del Padre. Leone era soprattutto colpito dalla calma con cui Francesco parlava di quelle cose gravi che non poteva conoscere se non per esperienza. Allora si sovvenne di quel che Francesco gli aveva detto un giorno: «L'uomo conosce solo quanto esperimenta». Tutto quello che aveva detto, Francesco doveva averlo sperimentato. Si sentiva tanta voce di verità nelle sue parole. Leone si sentì colmato di dolcezza e di sgomento al solo pensiero d'essere il confidente privilegiato di una siffatta esperienza. Francesco procedeva nel suo lavoro, e intrecciava vimini con mano ferma, come se stesse giocando.

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