sabato 14 gennaio 2012

per me come uno straniero nella sua terra


O Signore, com'è difficile accettare la tua via!
Tu vieni a me come un piccolo e debole bambino
nato lontano da casa sua.
Tu vivi per me come uno straniero nella sua terra.
Tu muori per me come un criminale fuori delle mura della città,
reietto dal tuo stesso popolo, frainteso dai tuoi amici
e sentendoti abbandonato dal tuo Dio.
Mentre mi preparo a celebrare la tua nascita,
cerco di sentirmi amato, accettato e a casa mia in questo mondo,
e cerco di vincere i sentimenti di alienazione e di separazione
che continuano ad assalirmi.
Mi chiedo, però, se il mio profondo senso di non avere una casa
non mi porti più vicino a te
dei miei occasionali sentimenti di appartenenza.
Dove celebro veramente la tua nascita?
Nell'intimo della casa o in una casa straniera,
fra amici accoglienti o fra stranieri sconosciuti,
con sentimenti di benessere o con sentimenti di abbandono?
Non devo sfuggire alle esperienze che sono più vicine alle tue.
Come tu non appartieni a questo mondo,
così io pure non appartengo a questo mondo.
Ogni volta che sento così, ho l'occasione di essere grato
e di abbracciarti meglio
e di gustare più pienamente la tua gioia e la tua pace.
Vieni, Signore Gesù, e sta' con me laddove mi sento più povero!
Confido che questo sia il luogo dove troverai la tua mangiatoia
e porterai la tua luce.
Vieni, Signore Gesù, vieni!
Amen!
HENRI J. M. NOUWEN, "In cammino verso l'alba", Ed. Queriniana )

venerdì 13 gennaio 2012


Dalla "comunità per me" a "io per la comunità" 

Una comunità non è tale che quando la maggioranza dei mem­bri sta facendo il passaggio da "la comunità per me" a "io per la comunità", cioè quando il cuore di ognuno si sta aprendo ad ogni membro, senza escludere nessuno. E il passaggio dall'egoi­smo all'amore, dalla morte alla resurrezione: è la pasqua, il pas­saggio del Signore, ma anche il passaggio da una terra di schia­vitù a una terra promessa, quella della liberazione interiore.

La comunità non è coabitazione, perché questo è una caser­ma o un albergo. Non è una squadra di lavoro e ancor meno un nido di vipere! E quel luogo in cui ciascuno, o piuttosto la mag­gioranza (bisogna essere realisti!) sta emergendo dalle tenebre dell'egoismo alla luce dell'amore vero.

L'amore non è né sentimentale né un'emozione passeggera. E una attenzione all'altro che a poco a poco diviene impegno, riconoscimento di un legame, di un'appartenenza vicendevo­le. E ascoltare l'altro mettersi al suo posto, capirlo, interessar­sene. E rispondere alla sua chiamata e ai suoi bisogni più profondi. E compatirlo, soffrire con lui, piangere quando piange, rallegrarsi quando si rallegra. Amare vuol dire anche essere felici quando l'altro è lì, tristi quando è assente; è resta­re vicendevolmente uno nell'altro, prendendo rifugio uno 
nel­l'altro. "L'amore è una potenza unificatrice", dice Dionigi l'A- reopagita.

Se l'amore è essere teso verso l'altro, è anche e soprattutto ten­dere entrambi verso le stesse realtà; è sperare e volere le stesse cose; è partecipare della stessa visione, dello stesso ideale.


(Jean Vanier)
Fonte: “ La comunità luogo del perdono e della festa”

giovedì 12 gennaio 2012

il padre invece lo lancia verso le stelle


IL BISOGNO DI UN PADRE
«I ragazzi cercano ciò che la generazione che li precede non offre: la mediazione di un padre. Così emergono padri incerti e provvisori, prometei simbolici più o meno pittoreschi che rubano il fuoco del futuro agli dei: da Assange a Mourinho, e quel che sta in mezzo. Il futuro non esiste più perché i padri si sono nascosti. Il padre è il mediatore del futuro, colui che è capace di provocare la nostalgia di futuro di cui ogni giovane ha bisogno per affrontare il presente. Padri sono i padri di famiglia, spesso assenti; padri sono i maestri a scuola e all'università, spesso padrini; padri sono i politici, spesso padroni; padri sono gli uomini delle agenzie educative (dalla chiesa alla tv), spesso patrigni. Padri sono tutti coloro a cui sono affidate le vite di altri, che padri diventano se si pongono al servizio di quella vita che non è loro, ma è loro affidata e di cui dovranno rendere conto alla storia.
Se i padri non servono le vite dei figli, ma le divorano come Cronos, cioè le controllano o ignorano, i figli diventano burattini o orfani. Che futuro ha un burattino? I fili. Un orfano? La fuga. Quando mio padre mi lanciava in aria da bambino, mia madre, impaurita, gli chiedeva di mettermi giù. Lui la rassicurava e continuava. La madre ha il compito di tenere ancorato il figlio alla terra, il padre invece lo lancia verso le stelle, verso l'ignoto, verso la paura di cadere, ma le sue braccia lo aspettano per ricordargli che il futuro è un'incognita, ma si cade tra braccia sicure, e la paura della vertigine si muta in risata. Ma se il padre sparisce, il duro suolo fermerà la caduta dei figli e non resterà che il pianto inconsolabile di un inizio fallito. I ragazzi manifestano perché i padri si manifestino e liberino il futuro e i sogni che contiene.
Ogni ragazzo può sognare perché è sognato. Ogni uomo può sperare perché è atteso. Ho la fortuna di avere un padre: mio padre. Ho avuto la fortuna di avere grandi padri: Mario Franchina, professore di lettere, Padre Pino Puglisi, professore di religione del mio liceo, Paolo Borsellino, vicino di quartiere. Da loro ho ricevuto il futuro e quindi il presente. Abbiamo bisogno di padri che facciano più strada di quanta possiamo farne noi per raggiungerli. Padri tornate, noi non smetteremo di cercarvi e di darci da fare per essere un nuovo inizio.»
(Alessandro D’Avenia su La Stampa del 24.12.2010)

mercoledì 11 gennaio 2012

tanto semplice quanto il sole


«Parlami ancora di Dio», domanda monsieur Lucien a mademoiselle Rosée abbracciandole il collo. «Avete una voce così dolce quando parlate di ciò che non esi­ste». «Oh, ma caro il mio uomo», dice mademoiselle Ro­sée aggiustando la bretella del suo reggiseno, «io non cerco di convincervi dell'esistenza di Dio. Se sapeste come poco gli importa che voi crediate in lui. Dio, caro il mio uomo, è tanto semplice quanto il sole. Il sole non vi chiede di adorarlo. Ci chiede soltanto di non fargli ostacolo e di lasciarlo passare, di lasciar fare. Un poco come Ariane in cucina, quando chiede ai bambini di andare a giocare un poco più lontano, per preparare questa pietanza che non prepara in fondo che per loro. Dio è così, caro il mio uomo. Ama vederci ridere e giocare. Di tutto il resto si occupa lui».
Christian Bobin, L'amore è proprio una piccola cosa… con delle conseguenze meravigliose, 91-92

martedì 10 gennaio 2012

difendo con le unghie un taccuino dove è segnata tutta la mia «saggezza»


Signore, insegnami a dormire

di Alessandro Pronzato, I vangeli scomodi, 389-392
(Mc 14, 32-41).

Strano. Non ho mai sentito una predica sul sonno. È una grave lacuna nella mia formazione.
Signore, lasciami dormire. Devo dormire. Non svegliarmi. È bene che io dorma.
La mia salvezza, ormai, è legata al sonno.
Difficilmente i «maestri di spirito» approverebbero ciò. Ma Tu, che non sei obbligato a leggere i loro trattati, comprendi. E, spero, esaudirai la mia richiesta.
Le Tue vie, si dice, sono infinite. E perché una di queste strade, quella che arriva fino a me, non potrebbe essere appunto la via del sonno?
Signore, insegnami a dormire.
Non pretendere la preghiera. Lo sai che lì non cavi più nulla da me. Moltiplico le parole, chiacchiero per tapparTi la bocca, per non lasciarTi parlare. E Tu devi rinfoderare i Tuoi progetti, perché non li voglio ascoltare. Ho paura.
Ti resta una possibilità, nei miei riguardi. Il sonno.
Si legge, nella storia, di città costrette a capitolare, dopo interminabili assedi, perché i loro abitanti venivano presi «per fame» o «per sete».
Tu, Signore, devi prendermi «per sonno».
Di giorno, sto all’erta. Ho imparato a difendermi da Te. So come ci si difende dal Tuo Vangelo, specialmente dalle pagine più scomode. Con le armi del buonsenso e della cultura riesco a neutralizzare i Tuoi paradossi. E se qualche Tuo colpo arriva fino a me, trovo il modo di renderlo innocuo, inserendolo in un casellario appositamente approntato, dove tutto viene sistemato, ogni cosa al proprio posto, ogni idea in ordine, nulla deve darmi fastidio.
Di notte, invece, sono costretto ad abbandonare la difesa. A smantellare i bastioni della «ragionevolezza».
È quello il Tuo momento, Signore!
Approfittane.
Prendi in mano le briglie che di giorno ho preteso stoltamente di tenere strette tra le mie dita.
Suggeriscimi le cose giuste.
Dimmi ciò che devo fare.
Ricostruiscimi, mentre dormo.
Sono come una macchina che ha bisogno di una «ripassata» generale. Pensa Tu a rimettere tutto in efficienza: orecchie, lingua, cervello, occhi, cuore soprattutto.
Rifammi, Signore, durante la notte. Perché io non so far altro che accumulare guasti.
Al mattino, svegliandomi, troverò uno splendido regalo: un me stesso nuovo, in edizione rifatta e, naturalmente, migliorata.
Qualcuno ha scritto: «Il sonno è l’astuzia di Dio per dare all’uomo l’aiuto che non può far passare in lui mentre è sveglio». Spero proprio che la Tua astuzia «notturna» prevalga sulla mia stoltezza «diurna».
Quando sono sveglio difendo con le unghie un taccuino dove è segnata tutta la mia «saggezza». Contiene la mia scala di valori, la mia «problematica» aggrovigliata, i miei programmi - ahimé! - di santità.
Di notte sono costretto a mollarlo. Signore, raccattalo Tu. Non ridere. Compatiscimi. Correggi gli svarioni, cancella le idiozie, elimina gli spropositi. Scrivi Tu ciò che è bene.
Trascorro un terzo della mia vita a dormire. Otto ore di sonno su ventiquattro della giornata. È quello il tempo «opportuno», Signore. Per insegnarmi a vivere nei restanti due terzi.
Non dirò come quella signora inglese che, nell’ultima guerra, se ne restava tranquillamente a letto durante l’infuriare dei bombardamenti: «Ho pensato che Dio non dorme: non vi era dunque nessuna ragione che stessimo svegli tutti e due». Nel mio caso, dovrei dire: guai se stessimo svegli tutti e due. Io impedirei il Tuo lavoro. Combinerei guai, come faccio durante la giornata.
Un proverbio idiota (che ho imparato a odiare, negli anni del seminario, allorché la sveglia suonava alle cinque e trenta del mattino) afferma: «Chi dorme non piglia pesci». Sia chiaro che io non ho nessuna voglia di pigliar pesci. In compenso, quando dormo, Tu, Signore, puoi pigliare me.
Ripeto, è l’ultima occasione che Ti resta.
Non lasciartela sfuggire, per carità.

Leggo nella Scrittura:

Invano vi alzate avanti giorno
e ritardate il riposo, mangiando il pane
del dolore,
poiché Dio dà a coloro che ama
il sonno. (Sal 127,2)

Signore, se mi ami, dammi il sonno.
Lasciami dormire.
Insegnami a dormire.
E Tu lavora, finalmente, in pace.

lunedì 9 gennaio 2012

vivere, ne valeva la pena


Dopo aver letto la recensione su Luisito Bianchi mi è venuto voglia di conoscerlo. Sembra che più che un racconto, la narrazione finisca con il diventare il recupero della propria trascorsa esistenza, nell’avvicendarsi di stagioni astronomiche che  si confondono con quelle della vita, una sinfonia di suoni, di voci, di visioni e di aromi che piano piano avvolge il lettore, fino a penetrargli dentro, a coinvolgerlo, sì che da semplice spettatore ambisce a essere protagonista di una storia irripetibile. La memoria di Luisito diventa anche la nostra memoria, perché Vescovato diviene il nostro paese in cui avremmo desiderato di essere nati, per vivere con lui, con l’autore, le esperienze di una giovinezza ricca per l’animo e ritrovare quelle radici che il tempo che passa, convulso e orfano della nostra attenzione, sembra aver reciso.

Gli irripetibili istanti del cerchio della vita
“Come il puntino che salda il cerchio della vita con le sue quattro stagioni, sempre più piccolo man mano che il cerchio si perfeziona fino a diventarne un tutt’uno con esso. Càpita quindi di indicare un qualsiasi punto del cerchio e dire con sicurezza: è questo il punto che salda tutto, e sono infiniti i punti dato che il cerchio è perfetto. Come il respiro, il battito del cuore e delle ciglia in questo preciso momento in cui scrivo salda tutti quelli che ci sono stati con quelli che verranno.
Per dirvi, cari, che, nella perfezione del cerchio che è la vita di ogni uomo, ogni momento è importante quanto il tutto, e che questo sentimento lo si prova nella sua profonda verità quando i ricordi di stagioni lontane diventano memoria, proprio come queste pagine di ricordi sono diventate in me memoria. E la memoria è il puntino impercettibile che salda il cerchio della vita e mi fa dire, come succo di queste storie di vecchio lunario: vivere, ne valeva la pena.
28 novembre 1984 – 8 agosto 1985 - Le quattro stagioni di un vecchio lunario
di Luisito BianchiSironi Editore
«Amo questa Chiesa perché è lei che mi ha trasmesso Cristo. Ed è nella Chiesa che ho sentito
parlare di un Dio che sceglie di perdere ogni potere, preferendo la povertà. Di fronte a certi
atteggiamenti della Chiesa mi viene da chiedermi: è possibile che si cerchi il potere per affermare la
parola di colui che ha rifiutato il potere?».
Uno dei concetti su cui insisteva maggiormente era quello della "gratuità". Nel 1968 si chiedeva:
«Come posso restare coerente nell'annunciare la gratuità del Vangelo, se in cambio, proprio per la
mia funzione di prete, ricevo del denaro?». È da questa riflessione che scaturì in lui la decisione di
diventare operaio. 
Don Luisito Bianchi, prete e scrittore operaio, morto il 5 gennaio 2011.
Con la scomparsa di don Luisito Bianchi, avvenuta il 5 gennaio, abbiamo perso non solo uno
scrittore, uno dei più originali degli ultimi decenni, ma anche il testimone scomodo di un
radicalismo evangelico profetico e mai accomodante. Nella sua vita Luisito Bianchi ha fatto
l'insegnante, il traduttore, l'operaio, il benzinaio, l'inserviente in ospedale. Nato a Vescovato, in
provincia di Cremona, nel 1927, sacerdote cattolico dal 1950, il grande pubblico l'ha conosciuto a partire dal 2003, quando Sironi editore ripubblicò La messa dell'uomo disarmato, un ampio,
suggestivo romanzo sulla Resistenza, uscito per la prima volta nel 1989 in un'edizione autoprodotta. Di quel periodo, l'autore non offriva soltanto una lettura storiografica. C'era una dimensione filosofica e religiosa (una religione civile, oltre che trascendente) che faceva della Resistenza una categoria quasi esistenziale.
Ha pubblicato: Salariati (1968), Gratuità tra cronaca e storia (1982), Dittico vescovatino (2001),Simon mago (2002), Dialogo sulla gratuità (2004) e Monologo partigiano (2004). Con Sironi ha pubblicato Come un atomo sulla bilancia (2005), I miei amici-Diari(2008) e La messa dell’uomo disarmato (2002), il suo grande romanzo sulla Resistenza, elogiato da critica e pubblico.


domenica 8 gennaio 2012

Il dono significa generosità e umiltà, attenzione e accoglienza, distacco e gratitudine, senso dell’amicizia e del debito...


Confesso che non avevo un post per oggi, poi ho incontrato questo dono e non ho potuto non offrirlo...
Temo proprio di avere una venatura consumistica; e il peggio è che non riesco a pentirmene. Forse non è un grosso peccato, forse non è un peccato per niente. Peccato è venir posseduti dalle cose, non già liberamente possederle. È ben vero che col termine «consumismo » intendiamo, di solito, proprio il venire posseduti; e questo – è chiaro – è una grave mancanza di povertà e di libertà;ma consumismo viene da «consumare» che è un verbo nobile e denso. Consumare si dice del matrimonio, si dice del sacrificio e dell’eucaristia. Ed è in questo senso che dovremmo offrire e «consumare» le cose. Io amo molto la dimensione del dono; e non mi dite che questo è consumismo. Il dono è l’espressione tangibile di valori essenziali, quali il dare e il ricevere che sono alla radice dell’essere e della vita stessa del nostro Dio trinitario. Il dono significa generosità e umiltà, attenzione e accoglienza, distacco e gratitudine, senso dell’amicizia e del debito... No, non ditemi che tutto questo è consumismo. Consumistico sarà quel «dono» dispendioso e senz’amore che facciamo per adulazione, per ambizione, per prestigio e per calcolo. Ma questa è solo espressione di vanità, di  interesse, di astuzia; col dono vero non ha niente a che fare…   I doni veri mi piace farli e riceverli; e non so neanche quale delle due cose preferisca, ma forse, in quanto donna e in quanto povera, mi piace piú riceverli: confessare il bisogno e aprirmi all’accoglienza e alla riconoscenza: l’atteggiamento che abbiamo verso Dio e che è tanto bello, giusto e dolce avere anche verso gli uomini. Ricevere doni è ricevere amore, accoglierlo e scaldarlo, dentro di noi, come un piccolo seme concepito.
ADRIANA ZARRI