sabato 10 agosto 2013

- Imparare a vivere nel tempo di Dio - riprese Francesco - significa possedere la chiave della sapienza! - E la sorgente d’un pace infinita - aggiunse Chiara.


 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

È l’alba che s’accende? - cap. 6

Ci fu una pausa di silenzio. Poi Chiara aggiunse:
- Voi ben sapete quello che dice il Signore nel Vangelo. «Il Regno dei Cieli è come un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo ...». Il grano è spuntato e così pure la zizzania. I servi si sono affrettati a chiedere al padrone se non dovessero adoperarsi ad estirpare la zizzania. Non occupatevene, fu loro risposto. Potreste strappare, così facendo, ogni cosa: zizzania e grano insieme. Lasciateli, dunque, crescere insieme fino al giorno della mietitura.
«Dio non partecipa i nostri timori, né la nostra fierezza, né la nostra impazienza. Egli sa aspettare come Dio solo sa aspettare. Come sa farlo soltanto un padre infinitamente buono. Egli è longanime e misericordioso. Nutre sempre qualche speranza, fino alla fine. Poco gli importa che mucchi di rifiuti invadano il suo campo e che non sia bello a vedersi, se poi, alla fine, gli sarà dato di raccogliere più grano che zizzania. Noi stentiamo a pensare che la zizzania possa trasformarsi un giorno in grano e produrre spighe dorate. I contadini ci diranno di non aver mai visto siffatte metamorfosi nell’ambito dei loro campi. Ma Dio, che non considera le apparenze esteriori, sa di poter trasformare col tempo della sua misericordia il cuore stesso degli uomini».
«C’è un tempo per tutti gli esseri. Ma questo tempo non è uguale per tutti. Il tempo delle cose non è il tempo degli animali, e quello degli animali non è il tempo degli umani! E al di sopra di tutto e ben diverso da tutto c’è il tempo di Dio che tutti li riassume e li supera. Il cuore di Dio non batte secondo il ritmo del cuore nostro. Il suo moto è quello della Sua misericordia eterna che si tramanda nel tempo e non invecchia mai. È molto difficile a noi accedere a questo tempo divino. Eppure, là soltanto, noi possiamo trovare la pace».
- Avete ragione, sorella Chiara. Il mio turbamento e la mia impazienza hanno radici in un terreno troppo umano. Me ne rendo ben conto. Ma non ho ancora scoperto Dio. Io non vivo ancora nel tempo di Dio.
- Chi mai oserebbe affermare di vivere nel tempo di Dio? - domandò Chiara. - Per questo ci vorrebbe il cuore stesso di Dio.
- Imparare a vivere nel tempo di Dio - riprese Francesco - significa possedere la chiave della sapienza!
- E la sorgente d’un pace infinita - aggiunse Chiara.

venerdì 9 agosto 2013

Egli avrebbe volentieri intrapreso il giro del mondo per vedere realizzata la volontà del Signore nei suoi riguardi. Egli non pensava alle sue forze declinanti. Queste non sostenevano più la fiamma che lo divorava.


 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

È l’alba che s’accende? - cap. 6

Chiara ascoltava, profondamente commossa. Essa aveva difficoltà a nascondere la propria emozione. Le parole di Francesco trovavano in lei un’eco profonda. Ma era soprattutto la vista di Francesco che la sconvolgeva. Francesco s’era animato nel corso del suo parlare. Quell’uomo gracile e malaticcio raggiava in quel momento d’una sovrumana bellezza. La sua parola assumeva un accento forte e grave. Una viva passione lo sosteneva e lo illuminava. Era un profeta che parlava per bocca di Francesco.
Chiara avrebbe voluto limitarsi ad ammirare e ad approvare. Ma essa non poteva dimenticare quanto fosse importante il suo intervento in quella circostanza. L’eccezionale nobiltà di Francesco ne faceva risaltare ancor più in quel momento ai suoi occhi il dolore che lo torturava. Chiara lo lasciava parlare, convinta che il parlare gli fosse di sollievo. Ma, mentre lo ascoltava, non cessava di chiedersi come avrebbe potuto prenderlo per mano e ricondurlo sulla strada della pace.
Francesco, tutto assorto nel suo soggetto, non avvertiva più i suoi bruciori d’occhi e di stomaco. Egli aveva l’impressione di rivivere. Tutte le sue sofferenze erano assorbite dal fuoco della sua passione. Egli avrebbe volentieri intrapreso il giro del mondo per vedere realizzata la volontà del Signore nei suoi riguardi. Egli non pensava alle sue forze declinanti. Queste non sostenevano più la fiamma che lo divorava. Mentre parlava, si sentiva invaso da una immensa stanchezza alla quale s’aggiungeva nell’anima sua ora un senso di sconforto. Allora le farfalle nere ripresero a volteggiargli dinanzi agli occhi.
- Ahimé - riprese Francesco dopo una breve pausa di silenzio - io sono come un padre respinto dai suoi stessi figlioli. Essi non mi riconoscono più. Hanno vergogna di me e della mia semplicità. Possa il Signore aver pietà di me, sorella Chiara!
- I vostri figli non vi hanno tutti rinnegato ribatté Chiara con dolcezza. - E Dio vi tiene tuttora per mano.
- Dio! - sospirò dolorosamente Francesco. - Quando mi presento al suo cospetto nella mia solitudine, ne ho paura e tremo tutto dalla testa ai piedi. Deh, se soltanto sapessi cosa debbo fare! ...
- Forse non avete nulla da fare - riprese Chiara.

giovedì 8 agosto 2013

Lui stesso mi ha rivelato che noi s’aveva a vivere secondo la forma del santo Vangelo; vivere, semplicemente vivere, insomma. Vivere soltanto, ma intensamente. Vivere seguendo l’umiltà e la povertà dell’altissimo Signore Gesù Cristo, trascurando ogni volontà di dominazione, ogni forma di prestigio, ed ogni possesso di beni materiali.


 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

È l’alba che s’accende? - cap. 6

In primavera, quando i sentieri tornarono a farsi praticabili, Francesco si mise in cammino per andare a far visita a sorella Chiara. Egli aveva finito per cedere alle insistenza di frate Leone. L’ultimo inverno trascorso all’eremo era stato il più povero di sole che Francesco avesse conosciuto in vita sua. Nondimeno, partendo dalla piccola montagna, non le diceva addio. Egli si riprometteva di tornarci il più presto possibile.
Assistito da Leone, suo solito compagno di viaggio, Francesco prese lungo i pendii boscosi che già venivan coprendosi di giovane vegetazione. Al di là delle colline lucenti d’acqua e di sole, Francesco si avviò per la strada che conduceva a San Damiano.

Ne fu molto felice Chiara, quando le annunziarono l’arrivo di Francesco. Ma quand’essa vide quel volto scarno e terroso, specchio di interni dolori, Chiara fu colta da un senso di pietà e di tristezza.
- Padre - esclamò Chiara sottovoce - quanto avete dovuto soffrire! Perché avete aspettato tanto a lungo prima di venire a trovarmi?
- La tristezza - replicò Francesco - mi pesava e mi paralizzava. Ho sofferto molto e non ho ancora finito di soffrire.
- Perché affliggervi tanto, Padre? - disse Chiara. - Vedete quanto vi fa male tutto ciò. E noi abbiamo tanto bisogno della vostra pace e della vostra gioia.
- Non soffrirei tanto - rispose Francesco - se il Signore non mi avesse affidato questa grande famiglia, e se non mi sentissi responsabile della fedeltà dei frati alla loro vocazione.
- Sì, vi capisco - soggiunse Chiara, che intendeva risparmiargli spiegazioni troppo penose.
Ma Francesco era desideroso di parlare. Aveva il cuore gonfio, ed era per lui un sollievo il poter esprimersi liberamente.
- Oggi - riprese Francesco - la nostra vocazione è revocata in dubbio. Molti frati considerano con una punta d’invidia forme di vita religiosa più e meglio organizzate, più efficienti e più solide. Essi vorrebbero che noi le adottassimo. Io temo che essi aspirino a ciò, preoccupati solo di non apparire inferiori agli altri. Essi aspirano a farsi un posto al sole. Io, per mio conto, non sono contrario a queste forme di vita religiosa già approvate dalla Madre Chiesa. Ma il Signore non mi ha chiamato perché io fondassi un Ordine potente, né una Università, né una macchina da guerra per combattere gli eretici. Un Ordine potente ha scopi ben precisi. Ha da fare o da difendere qualcosa, e perciò si organizza in vista dei suoi fini. Tale Ordine non può non essere forte ed efficiente. Ma il Signore non ha imposto a noi frati minori di fare o di riformare o di proteggere qualche istituto nell’ambito della Santa Chiesa. Lui stesso mi ha rivelato che noi s’aveva a vivere secondo la forma del santo Vangelo; vivere, semplicemente vivere, insomma. Vivere soltanto, ma intensamente. Vivere seguendo l’umiltà e la povertà dell’altissimo Signore Gesù Cristo, trascurando ogni volontà di dominazione, ogni forma di prestigio, ed ogni possesso di beni materiali. Ho molto riflettuto, nel corso del mio ultimo ritiro quest’inverno sulla montagna. E mi sono convinto fino all’evidenza che questa vita secondo la forma del Vangelo è tale che non si possono ad essa applicare i princìpi organizzativi degli altri Ordini, senza il rischio di venirne distrutta. Essa non può venir regolata dall’esterno. Questa vita evangelica, se vissuta in modo autentico, deve fiorire in piena libertà e trovare la propria legge in se stessa. Taluni frati mi chiedono una regola più precisa e meglio determinata. Ma io non posso dir loro più di quanto ho già detto e che è stato pienamente approvato dal Signor Papa: che, cioè la regola e la vita dei frati minori si riducono all’osservanza del Vangelo di Nostro Signor Gesù Cristo. Non ho nulla da aggiungere, né da togliere fino ad oggi alla predetta affermazione. Vivano pertanto i frati nelle condizioni umili e povere in cui visse il Signore, ed annuncino come Lui il Regno dei Cieli a tutte le creature, ed emigrino di luogo in luogo se ne sono cacciati e perseguitati. E si nutrano di tutto ciò che vien loro offerto, dovunque vengano ospitati. I frati che vivranno in tal modo, anziché costituire un Ordine potente, costituiranno in ogni luogo delle libere comunità di amici. Essi saranno veri figli del Vangelo. Essi saranno degli uomini liberi, giacché nulla ne limiterà l’orizzonte. E lo Spirito del Signore soffierà su di loro come vorrà.

mercoledì 7 agosto 2013

siamo veramente giunti all’ora delle tenebre. È terribile. Non prevedevo che sarebbe stato tanto terribile.


 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Sempre più tenebre - cap. 5

Ma un giorno, ad una svolta del sentiero nei boschi, Francesco s’imbatté in Rufino.
Questi ne fu stupito; e rigirandosi come una bestia impaurita, prese a fuggire nel folto del bosco.
Francesco si mise a chiamarlo, ma invano.
Questa fuga di Rufino gli aperse gli occhi.
Non poteva essere lo spirito del Signore a farlo scappare, bensì piuttosto il Maligno che cerca sempre di separare l’uomo dai suoi fratelli per farlo più facilmente cadere.
Così pensava Francesco.
Pochi giorni dopo, al termine d’una lunga orazione, Francesco mandò Leone a chiamare Rufino.
- Non ho nulla da fare con frate Francesco - ribatté Rufino a Leone. - Non volio più seguirlo. Ne ho abbastanza delle sue fantasie. Ora intendo vivere una vita solitaria nella quale potrò salvarmi con più certezza che non seguendo le stramberie di Frate Francesco.
- Ma che dici mai, frate Rufino? – esclamò Leone, che non credeva alle sue stesse orecchie.
- Ti scandalizza quel che dico! – ribatté Rufino. - Ebbene, sappi che frate Francesco non è l’uomo di Dio che tu credi. Ora ne ho la prova e ne sono certo. Da mesi e mesi egli si trascina senza slancio, senza volontà e senza gioia. È forse questo l’atteggiamento di un santo? No, certo. Egli si è ingannato ed ora inganna tutti noi. Quando mi obbligò, in nome dell’obbedienza, a predicare senza tonaca, mezzo nudo, nella chiesa di Assisi, credi tu che fosse ispirato da Dio? Non fu che una stramberia, questa sua, una volgare stramberia fra mille altre. Ebbene, quel tempo è finito per me. Egli non mi manderà più a predicare, né a curare i lebbrosi. Il Signore mi ha indicato la mia vera strada.
- Ma chi mai ha potuto metterti in testa tutte queste idee? - chiese Leone atterrito. - Se Dio ti concedesse, sia pure un attimo, di sentire tutte le pene fisiche e morali di Francesco, ti verrebbero meno le forze e imploreresti pietà. Per resistere come fa a tanti dolori, bisogna che Dio lo sostenga. Ha da avere in se stesso la medesima forza di Dio. Rifletti, te ne prego, su questo che ti dico.
- Ho già riflettuto - ribatté Rufino. – Dio stesso mi ha parlato. So ormai a che debbo attenermi nei riguardi del figlio di Pietro Bernardone.
- No, no, non è possibile - protestò tutto sconvolto Leone. - Tu non abbandonerai il nostro Padre. Sarebbe una dannazione per te. E per lui sarebbe un colpo mortale. Per l’amore di Nostro Signore Gesù Cristo ti supplico, Rufino, di cacciare questi pensieri e di tornare in mezzo a noi. Abbiamo tutti bisogno di te. Il demonio lo sa, ed è perciò che cerca di traviarti.
- Vattene, frate Leone - ribatté bruscamente Rufino. - Non importunarmi più a lungo. La mia strada è tutta tracciata dal Signore stesso. Lasciatemi in pace! Non chiedo altro.
Leone tornò da Francesco e gli riferì il suo colloquio con Rufino. Francesco s’avvide del grave pericolo in cui incorreva quest’ultimo e si chiese come avrebbe potuto salvarlo. Lasciò passare qualche giorno, poi rispedì Leone a cercare Rufino. Ma Leone trovò Rufino più ostinato che mai nel suo rifiuto, e dovette tornarsene senza aver ottenuto nulla.
- Ahimé! è tutta colpa mia - disse allora Francesco a Leone. - Non ho saputo attirarlo verso di me. Non ho saputo soffrire come avrei dovuto, attirando gli altri a me, come seppe soffrire Gesù stesso.
- Anche Gesù è stato abbandonato dai suoi nell’ora dell’agonia e della morte - gli fece osservare Leone.
- Sì, hai ragione - ribatté Francesco al termine d’un breve silenzio. - «Colpirò il pastore sta scritto, e le greggi saranno disperse». Dio ha permesso questo per suo Figlio. Il discepolo non ha mai da pretendere di mettersi al di sopra del Maestro. - Francesco tacque, e restò assorto nei suoi pensieri. Leone lo guardava senza saper che cosa dire.
- Ah, frate Leone - esclamò Francesco - siamo veramente giunti all’ora delle tenebre. È terribile. Non prevedevo che sarebbe stato tanto terribile. Lasciami solo adesso, frate Leone. Ho bisogno di rivolgermi a Dio con tutte le mie forze.
Leone si allontanò.
- Dio, mio Signore - esclamò allora Francesco - tu hai soffiato sulla mia lampada. Ed eccomi immerso nelle tenebre con tutti coloro che mi avevi affidato. Io son diventato per essi un oggetto di paura. Mi sfuggono ormai anche i seguaci già più fedeli. Tu hai allontanato da me i miei amici e i miei compagni della prima ora. Ascolta, o Signore, la mia supplica! La notte non mi è stata già, forse, abbastanza dura? Accendi nel mio cuore una nuova fiamma. Rivolgi verso di me la Tua faccia, perché la luce della Tua aurora riprenda a risplendermi in viso, e perché i miei seguaci non abbiano a brancolare nel buio. Abbi pietà di me, Signore, per il bene loro.
Un blocco di neve scivolò, non lontano, dall’alto di un albero. S’udì uno scricchiolio di rami cui seguì un tonfo sordo sul terreno. Poi tutto tornò avvolto nel grande silenzio.

martedì 6 agosto 2013

Soprattutto voleva evitare ogni incontro con Francesco. Rufino aveva perso ogni fiducia nel capo. E quando lo vedeva avvicinarsi da lontano, Rufino si affrettava in altra direzione.


 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Sempre più tenebre - cap. 5

Fra tutti i frati dell’eremo, era frate Rufino quello che osservava con più attenzione Francesco.
Da mesi lo vedeva trascinarsi a gran fatica, senza reazione, senza slancio e senza gioia.
Dapprima ne aveva avuto gran compassione.
Poi la cosa prese ad intrigarlo e a renderlo inquieto.
Lo torturava quello stato prolungato di tristezza e di abbattimento di cui Francesco soffriva.
Tale stato gli pareva fuori luogo.
A poco a poco cominciò ad insinuarsi nel suo cuore un dubbio:
Francesco era proprio l’uomo di Dio che egli credeva? Non s’era forse sbagliato? Non s’era, forse, illuso troppo presto che fosse un santo? In tal caso, non spettava, forse, a lui, frate Rufino, di raccogliere la sfida e dimostrare di che cosa sia capace un vero santo?
Allora, un messo di Satana si vestì di luce e venne a parlare a Rufino in questi termini:
« Cosa ti unisce, frate Rufino, col figlio di Pietro Bernardone? Questi è un uomo stupido, illuso d’essere un rinnovatore. Egli ha ingannato molta gente e si è ingannato lui stesso. Ed ora considera il bel risultato: egli non è più che un povero cencio, senza forza e senza volontà. La piaga che lo fa languire e piangere non è altro che un grande orgoglio ferito e deluso. Prestami fede. Io sono il Figlio di Dio. So ben io chi ho eletto e predestinato. Il figlio di Bernardone è dannato, ed ogni suo seguace è tratto in inganno. Riprenditi, finché sei ancora in tempo. Lascia che questo rinnovatore corra alla sua rovina. Non prestargli più ascolto. Guardati dal riferirgli ciò che ti ho detto, e soprattutto guardati dall’interrogarlo. Egli potrebbe ancora sedurti. Non curarti di lui e prosegui arditamente e semplicemente la tua strada. Segui il tuo istinto di perfezione che io ti ho ispirato come una promessa di eternità. Te ne additano la via gli antichi erediti che tu mediti. È questa una via sicura, una via già collaudata e benedetta. Imita, dunque, gli antichi, e trascura coloro che vogliono rinnovare ogni cosa prendendone a pretesto il Vangelo».
E l’angelo di Satana esibì più splendente che mai il proprio manto di luce agli occhi di Rufino. Questi ne fu abbagliato e felice. Dio stesso gli aveva, senza dubbio, parlato attraverso quella voce misteriosa.
Da quel giorno Rufino non si fece più vedere in seno alla comunità. Egli voleva vivere, come gli antichi eremiti, nel più completo isolamento, senza veder nessuno. Soprattutto voleva evitare ogni incontro con Francesco. Rufino aveva perso ogni fiducia nel capo. E quando lo vedeva avvicinarsi da lontano, Rufino si affrettava in altra direzione. Da principio, né Francesco né gli altri frati s’avvidero del nuovo atteggiamento di Rufino. Essi avevano tutti un alto concetto di lui. Essi ben sapevano che egli era un uomo dotato d’un profondo fervore. E Francesco li aveva abituati a rispettare la volontà divina nei riguardi di ciascuno di essi. Lui stesso si sarebbe ben guardato dal turbare l’azione di Dio in un’anima.

lunedì 5 agosto 2013

Sventurato è colui che affronta la solitudine senz’esservi spinto dallo Spirito.


 Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Sempre più tenebre - cap. 5

D’inverno la vita è dura negli eremi della montagna.
La solitudine vi si fa più vasta e più spaventosa.
L’uomo rimane solo, là dove s’è cancellata ogni traccia di vita; solo coi suoi pensieri e coi suoi desideri.
Sventurato è colui che affronta la solitudine senz’esservi spinto dallo Spirito.
Nel corso di interi giorni tristi e freddi, l’uomo solitario deve starsene rinchiuso nella sua cella. Fuori, la neve s’è distesa su tutti i sentieri, oppure continua a cadere una pioggia gelida.
L’uomo è solo al cospetto di Dio, senza alcuna possibilità di scampo.
Non dispone di libri per distrarsi, né di alcun compagno che lo assista e lo incoraggi.
L’uomo si sente ridotto a se stesso, al suo Dio o ai suoi demoni.
Prega.
E qualche volta tende l’orecchio anche ai rumori del mondo.
Egli non ode più il cantare degli uccelli; non gli giunge che il sibilo del vento sulla neve.
Egli trema di freddo.
Non ha, forse, mangiato dal mattino.
Ed egli si domanda se i frati questuanti gli porteranno qualcosa.
Quando l’uomo ha freddo, si ripiega su se stesso come un animale.
E, anziché meditare, gli accade di brontolare e di bestemmiare.
L’inverno è sempre duro per i poveri.
Il loro tetto è troppo sottile o troppo mal ridotto, perché possa proteggerli dal gelo del vento che si insinua tra le pareti e fin nei cuori percossi da brividi pungenti.
Benché si invochi la povertà e si sia duri e resistenti come la roccia, può darsi che il morso del freddo sia più forte e faccia scricchiolare perfino la pietra.
Allora la tentazione si insinua nel cuore ed il suo linguaggio è quello del buon senso:
« Perché soffrire tanto? Non è forse follia l’ostinarsi invano a sopportare la fame ed il freddo? È necessario, forse, rinchiudersi in un buco sinistro per servire il Signore? ».
Ma presso le anime superiori la tentazione assume ben altro volto, più nobile e più puro del volgare buon senso: il volto della santità stessa.

domenica 4 agosto 2013

Un tempo, quando i frati andavano a far legna nel bosco, Francesco li esortava a risparmiare il ceppo perché potesse sperare di rifiorire.


Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Il gemito d’un povero - cap. 4

Nel gelo di un mattino d’inverno frate Leone uscì alla ricerca di lui nella neve. Lo trovò inginocchiato contro una roccia, quasi che ne facesse parte. Sembrava pietrificato. Non lontano di lì, un grande pino coperto di neve alzava al cielo il suo enorme mazzo di aghi scintillanti. L’albero rassomigliava ad un gigantesco candelabro d’argento massiccio. Frate Leone aiutò Francesco a rialzarsi, e prese a ricondurlo verso l’eremo, sostenendolo per il braccio come un povero bambino sperduto. Blocchi di neve cadevano dagli alti rami dei pini colmando l’aria d’una polvere bianca. Un freddo glaciale s’impossessava d’ogni creatura. Nel silenzio si udivano gli alberi gemere sotto il morso del gelo. Un pallido sole d’inverno versava i suoi raggi obliqui sulla neve che tutta ne scintillava. Francesco si sentiva accecato da quel riverbero. I suoi occhi malati non potevano sostenere la luce. Si sentiva come un uccello notturno che, tratto fuori dal suo nido, so\i sorprende abbagliato dalla luce del giorno.
Leone condusse Francesco alla capanna dove i frati avevano acceso il fuoco. Francesco si mise a sedere sulla soglia, incrociò le mani sulle ginocchia e si mise a contemplare lungamente la fiamma senza pronunciare parola. A quando a quando lo assaliva un brivido per tutte le membra. Quando la fiamma si calmava, ne seguiva con lo sguardo ogni inflessione. La vedeva correre da un capo all’altro dei tizzoni, sollevarsi, vacillare, ricadere intorno al legno, spegnersi quasi del tutto; e poi la vedeva slanciarsi di nuovo verso l’alto con un improvviso crepitìo donde sprizzava una polvere di scintille. Ad ora ad ora frate Leone rianimava la fiamma gettandovi una manciata di sterpi secchi. Allora il fuoco insorgeva lucente e bianco. Francesco chiudeva gli occhi per non essere abbagliato, o tendeva le mani per farsene schermo agli occhi.
Leone gli parlava sotto voce. Eran parole, le sue, semplici ed ingenue come quelle che si dicono ad un bambino malato. Francesco lo ascoltava sorridendo. Si sentiva esausto, incapace d’ogni sforzo. Restava immobile, tenendo lo sguardo fisso sulla fiamma che andava smorzandosi piano piano. Essa, già unita e compatta, si suddivideva ora in una folla di fiammelle azzurrine, verdi, rosse ed arancione che scintillavano tutte intorno al ceppo e lo avvolgevano e lo lambivano da ogni parte strappandone un gemito crepitante. Fuori della capanna soffiava il vento e se ne udiva il tumulto delle raffiche. Si sentiva la foresta tremare e gemere, percossa dal turbine. Dinanzi a quel focherello Francesco stava assorto in una lunga meditazione. Un tempo, quando i frati andavano a far legna nel bosco, Francesco li esortava a risparmiare il ceppo perché potesse sperare di rifiorire. Ora, egli si chiedeva perplesso se il ceppo fosse stato sufficientemente risparmiato e se un giorno avrebbe potuto rifiorire di nuovo.