sabato 28 aprile 2012


Le antipatie - Jean Vanier

In una comunità ci sono anche delle "antipatie". 

Ci sono sempre delle persone con le quali m'intendo, che mi bloccano, che mi contraddicono e soffocano lo slancio della mia vita e della mia li­bertà. 
La loro presenza sembra minacciarmi, e provoca in me del­la aggressività, o una forma di regressione servile. 
In loro presen­za sono incapace di esprimermi e di vivere. 
Altri fanno nascere in me dei sentimenti d'invidia e di gelosia: sono tutto quello che io vorrei essere, e la loro presenza mi ricorda che io non lo sono. 
La loro radiosità e intelligenza mi rimanda alla mia indigenza. 
Altri mi chiedono troppo. Non posso rispondere alla loro incessante ri­chiesta affettiva. Sono obbligato a respingerli. 

Queste persone so­no mie "nemiche"; mi mettono in pericolo; e anche se non oso ammetterlo, le odio. Certo, quest'odio è solo psicologico, non è ancora morale, cioè voluto. Ma lo stesso avrei preferito che queste persone non esistessero!

E naturale che in una comunità ci siano queste vicinanze di sensibilità come questi blocchi fra sensibilità diverse. Queste co­se vengono dall'immaturità della vita affettiva e da una quantità di elementi della nostra prima infanzia sui quali non abbiamo nessun controllo. Non si tratta di negarli.

Se ci lasciamo guidare dalle nostre emozioni, si costituiranno certo dei clan all'interno della comunità. Allora non ci sarà più una comunità, ma dei gruppi di persone più o meno chiusi su se stessi e bloccati nei confronti degli altri. Quando si entra in certe comunità, si sentono subito queste tensioni e queste guerre sot­terranee. Le persone non si guardano in faccia. Quando s'incro­ciano nei corridoi, sono come navi nella notte.

Una comunità non è tale che quando la maggioranza dei suoi membri ha deciso coscientemente di spezzare queste barriere e di uscire dal bozzo­lo delle "amicizie" per tendere la mano al "nemico".
Ma è un lungo cammino.
Una comunità non si fa in un giorno.
In realtà, non è mai fatta!
Sta sempre progredendo verso un amore più grande, oppure regredendo.


(Jean Vanier)

venerdì 27 aprile 2012

vinto in cose da nulla e disprezzabili

Ogni qual volta si desidera una cosa contro il volere di Dio, subito si diventa interiormente inquieti. Il superbo e l'avaro non hanno mai requie; invece il povero e l'umile di cuore godono della pienezza della pace. Colui che non è perfettamente morto a se stesso cade facilmente in tentazione ed è vinto in cose da nulla e disprezzabili. Colui che è debole nello spirito ed è, in qualche modo, ancora volto alla carne e ai sensi, difficilmente si può distogliere del tutto dalle brame terrene; e, quando pur riesce a sottrarsi a queste brame, ne riceve tristezza. Che se poi qualcuno gli pone ostacolo, facilmente si sdegna; se, infine, raggiunge quel che bramava, immediatamente sente in coscienza il peso della colpa, perché ha assecondato la sua passione, la quale non giova alla pace che cercava. Giacché la vera pace del cuore la si trova resistendo alle passioni, non soggiacendo ad esse. Non già nel cuore di colui che è attaccato alla carne, non già nell'uomo volto alle cose esteriori sta la pace; ma nel cuore di colui che è pieno di fervore spirituale.
Capitolo VI
GLI SREGOLATI MOTI DELL'ANIMA

Imitazione di Cristo

giovedì 26 aprile 2012


Il diritto di essere se stessi - Jean Vanier

Una delle più grandi difficoltà della vita comunitaria è che si obbligano a volte le persone a essere diverse da quello che sono; si appiccica su di loro un ideale al quale devono conformarsi.  
Se non arrivano a identificarsi all’immagine che si fa di loro,  temono di non essere amati o almeno di dare una delusione. 
Se ci arrivano, credono di essere perfetti. 
Ora, in una comunità, non si tratta di avere delle persone perfette. Una comunità è fatta di persone legate le une alle altre, ognuna fatta di quel miscuglio di bene e di male, di tenebre e di luce, di amore e di odio. E la comunità non è che la terra in cui ognuno può crescere senza paura verso la liberazione delle forme d’amore che sono nascoste in lui. Ma non ci può essere crescita che si riconosca che c’è possibilità di progresso, e dunque che c’è ancora in noi una quantità di cose da purificare, tenebre da trasformare in luce, paure da trasformare in fiducia.

Spesso, nella vita comunitaria, ci si aspetta troppo  dalle persone, e s’impedisce loro di riconoscersi e di accettarsi così come sono. 
Le si giudica molto presto, o le si classifica in categorie. Esse sono allora obbligate a nascondersi dietro una certa maschera. Ma loro hanno il diritto di essere brutte, e di avere un mucchio di tenebre dentro di sé, e angoli ancora induriti nel loro cuore in cui si nasconde la gelosia e perfino l’odio! 
Queste gelosie, queste insicurezze sono naturali; non sono “malattie vergognose”. Esse appartengono alla nostra natura ferita. 
E’ la nostra realtà. 
Bisogna impararle ad accettarle, a vivere con esse senza drammi, e a poco a poco, sapendosi perdonati, a camminare  verso la liberazione.

Io vedo nelle comunità certe persone vivere una specie di colpevolezza inconscia; hanno l’impressione di non essere quello che dovrebbero essere. Hanno bisogno di essere confermate e incoraggiate alla fiducia. 
Hanno bisogno di sentire che possono condividere anche la loro debolezza senza essere respinte.

(Jean Vanier)

Fonte: La comunità luogo del perdono e della festa


Il dilemma del porcospino afferma che tanto più due esseri si avvicinano tra loro, molto più probabilmente si feriranno uno con l’altro. Ciò viene dall’idea che i porcospini possiedono aculei sulla propria schiena. Se si avvicinassero tra loro, i propri aculei finirebbero col ferire entrambi. Questo è in analogia con le relazioni tra due esseri umani. Se due persone iniziassero a prendersi cura e a fidarsi l’uno dell’altro, qualsiasi cosa spiacevole che accadesse ad uno di loro ferirebbe anche l’altro, e le incomprensioni tra i due potrebbero causare problemi ancora più grandi. Eppure i porcospini hanno bisogno di stare vicini per scaldarsi a vicenda. Da questa contraddizione nasce il dilemma.
Schopenhauer, Parerga und paralipomena. 

mercoledì 25 aprile 2012

dall’anima alla carne

Shalom Myriam, 
ginocchia sulla polvere, 
come le colonne del tempio,
capelli sulle spalle,
sparsi come i colli di Israele,
non cercare la mia voce
nel volto di un angelo.
La voce di Dio
è ad un passo da te, 
ti scivola 
dalla pelle all’anima
e – se tu vuoi –
dall’anima alla carne.
Myriam, 
vuoi essere mia madre?
Myriam, 
ragazzina d’oriente,
in te la mia voce
si fa corpo,
mentre preghi, 
lavori,
cammini. 
Shalom, Myriam, 
in una grotta di Betlemme, 
allatterai la salvezza del mondo.
La stringerai a te, 
la chiamerai Jeshua.
Shalom, Myriam.

(Emily Schenker) 

martedì 24 aprile 2012

Mi manchi, Signore

Mi manchi. 
Mi manchi terribilmente. 
Da togliere il fiato. 
Leggo e rileggo le tue parole, 
con innamorata ostinazione.
Mi piego su questa pagina, 
e mi fa male non sentire
il ritmo del tuo respiro, 
il suono amico della tua voce. 
Mi manchi, 
e la tua assenza mi ferisce, 
come la lama che,
distratta,
attraversa la pelle 
e strappa alla carne un lacrima rossa. 
Mi manchi, Signore, 
e la preghiera 
oggi
è un rincorrere il vento;
è ascoltare una musica
che nessuno strumento può produrre.
Mi manchi, Signore, 
perché, 
di tanto in tanto, 
ho bisogno
di toccare, 
di vedere, 
di sentire profumi.
E tu, ora, 
non sei a portata di mano, 
non stai davanti ai miei occhi, 
non hai l’odore buono di chi ama.
Mi manchi, Signore, 
e la fede 
ne soffre, 
come di una malattia mortale. 
Senza cura.
Mi manchi, Signore, 
eppure, 
so,
quando mi allontano 
su versanti ripidi 
e pendii pietrosi;
quando fuggo le tue strade
per capriccio e per dispetto;
quando ti volto le spalle,
in un impeto di altezzoso disprezzo,
so, 
che io manco a te, 
ancora di più.
Per questo,
ad ogni ritorno, 
pretendo di averti qui
come uomo fedele, 
come Dio paziente.
È questa distanza 
che ci unisce. 
La tua assenza 
mi alimenta.
La tua presenza
mi disseta.
Amen. 

(Emily Schenker)

lunedì 23 aprile 2012


Le delusioni - Jean Vanier

Seguendo Gesù, Pietro è stato deluso tre volte.
Immagino che sia stato deluso quando Gesù l'ha chiamato; una parte di lui doveva rimpiangere la sua vita di pescatore e la sua vita familiare. Ma il suo amore per Gesù e la sua speranza gli hannopermesso di superare questa prima delusione.

Poi è stato deluso perché Gesù non era esattamente come lui avrebbe voluto che fosse. Avrebbe preferito un Gesù profetico e messianico, che non gli lavasse i piedi e non parlasse di morire.

Infine, la sua più grande delusione è stata che Gesù accettasse di diventare debole e di morire, e allora l'ha rinnegato.

Sono le tre delusioni della vita comunitaria.
La prima delusione, che è sicuramente la meno difficile, è quando vi si entra. Ci sono sempre in noi delle parti che restano attaccate ai valori che si sono lasciati.

La seconda delusione è quella di scoprire che la comunità non è così perfetta come si era creduto, che ha delle debolezze e dei difetti. L'ideale e le illusioni cadono, si è davanti alla realtà.

La terza delusione è la più dolorosa, quando ci si sente mal compresi e perfino respinti dalla comunità, quando per esempio non si è rieletti responsabili, o non ci vengono date le funzioni che avevamo sperato. E questa terza delusione ne porta un'altra, quando si sentono sorgere in noi la collera e le frustrazioni.

Per arrivare all'integrazione totale in una comunità, occorre saper passare attraverso le diverse delusioni che sono tutte dei nuoviapprofondimenti, dei passaggi verso la liberazione interiore.

(Jean Vanier)
Fonte: “La comunità luogo del perdono e della festa” di Jean Vanier, 

domenica 22 aprile 2012

ha filato le altezze d’azzurro

EMILY DICKINSON
Portatemi il tramonto in una tazza –
contate le fiale del mattino –
e ditemi quante stillano di rugiada,
quanto lontano si slanci il mattino –
quando dorme il tessitore
che ha filato le altezze d’azzurro.

Scrivetemi quante note ci sono
nell’estasi del nuovo pettirosso
tra i rami stupiti–
quanti sono i viaggi della tartaruga –
e quante coppe di rugiada beve
l’ape ebbra –

E chi ha gettato i pilastri dell’arcobaleno ,
chi le docili sfere conduce
con fili di morbido azzurro ?
Quali dita tendono le stalattiti –
chi conta il bracciale della notte
perchè nessuna perla manchi?

Chi costruì questa casetta bianca
e chiuse le imposte così bene
che il mio spirito non può più vedere?

Chi mi mi lascerà uscire in un giorno di gala –
con gli attrezzi adatti al volo
Oltre lo splendore?