sabato 17 agosto 2013

- Dio esiste, e tanto basta - mormorò Francesco.


Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Un’allodola canta sui campi arati - cap. 7

Quel giorno del Venerdì Santo fu molto stancante e molto lungo. Ma pur venne la sera con tutta la sua pace. Fu una pace profonda, come la pace dei campi al termine dei lavori agresti. Allora la terra è sconvolta e squarciata. Essa non oppone più alcuna resistenza, ben aperta e docile. La frescura della sera la imbeve tutta.

Tornando verso l’eremo, Francesco si sentiva avvolto e pervaso della pace dei campi. Tutto era stato consumato. Cristo era morto, e si era rimesso alla volontà del Padre. Aveva accettato il suo scacco. La sua vita d’uomo, il suo onore d’uomo, la sua pena d’uomo, s’erano cancellati dai suoi occhi. Tutto ciò non contava più. Non restava più che una sola verità smisurata: Dio esiste. Questo solo contava e bastava: che Dio fosse Dio. Tutto il suo essere s’era inchinato dinanzi a questa sola realtà. Aveva adorato l’Essere unico ed era morto in questa accettazione senza riserve. In questa estrema povertà era morto Gesù, e in questa suprema accoglienza del Padre. E la gloria di Dio lo aveva rapito e lo aveva fatto suo.
Laggiù, al di sopra dei monti, il sole tramontava lentamente. I suoi raggi dardeggiavano il bosco nel cui folto camminava Francesco. La foresta era trafitta da grandi strisce di luce. Gli alberi navigavano in un vapore luminoso. Regnava per ogni dove una gran pace. Taceva ogni soffio di vento. L’ora era maestosa e serena.
- Dio esiste, e tanto basta - mormorò Francesco.
Da uno spiraglio tra i rami, Francesco contemplò il cielo che era sgombro di nuvole. Vi spaziava un nibbio rosso. Il suo volo tranquillo e solitario pareva che dicesse alla terra: «Dio solo è l’Onnipotente. Egli è l’Eterno. Basta che Dio sia Dio». Francesco sentì l’anima sua alleggerita. Possente e leggera, insieme, come un colpo d’ala.
- Dio esiste, e tanto basta - ripeté Francesco.
Queste semplici parole lo colmavano d’una luce nuova. Esse acquistavano per lui una infinita risonanza. Francesco tese l’orecchio. Lo chiamava una voce che non era umana. Essa aveva un accento di misericordia e parlava al suo cuore, dicendo:
- Povero piccolo uomo! Sappi, dunque, ch’io sono Dio, e smettila per sempre d’esser turbato. Perché t’ho fatto pastore del mio gregge, devi forse dimenticare che il pastore principale son io? Ti ho prescelto, o uomo semplice, perché sia ben chiaro agli occhi di tutti che quanto io ho operato in te, anziché alla tua abilità, si deve alla mia grazia. Son io che t’ho chiamato. Son io che custodisco il gregge e lo faccio pascolare. Io sono il Signore e il Pastore. Questo è affar mio. Perciò non preoccuparti d’altro.
- Dio! Dio! - esclamò sottovoce Francesco. - Tu sei protezione. Tu sei guardiano e protettore. Sei grande e ammirevole, o Signore. Tu basti a noi tutti. Amen. Alleluia.

L’anima di Francesco grondava pace e letizia. Egli camminava d’un passo felice. Anziché camminare, gli pareva di danzare. Giunse Francesco ad un luogo donde il suo sguardo poteva spaziare molto lontano sulla campagna. Di lì si dominavano le colline circostanti e oltre ad esse la pianura che sfumava all’orizzonte. Francesco si fermò un istante a contemplare il paesaggio. Su una delle colline un armento di vacche tornava dal pascolo. Era minuscola quella visione. Si distinguevano le bestie, e dietro di loro l’uomo in cammino. Tutt’intorno dovevan esserci dei cani, ma si distinguevano a mala pena. Quando una delle bestie si allontanava troppo dalle altre, essa veniva ricondotta nel gruppo come da una forza invisibile. L’uomo doveva urlare e i suoi cani abbaiare. Ma a quella distanza e a quella altezza non se ne percepivano le singole voci. La scena era pervasa di silenzio. Essa sembrava fusa con la vita silenziosa della natura. L’affaccendarsi del guardiano assumeva in quel complesso le sue giuste proporzioni. Era qualcosa di minuscolo, di quasi insignificante.
- Tu solo sei grande - esclamò Francesco.

Poi riprese il suo cammino. Il sole tramontava. La nebbia stava per seppellire i burroni. Le stelle eran sul punto di nascere in cielo. Era tutto così, pensò Francesco, fin dagli inizi dei tempi, fin dalla prima sera del mondo. Era questo un segno della eternità stessa di Dio.
Francesco stava avvicinandosi all’eremo.

Leone gli si fece incontro.
- Hai l’aria allegra stasera - gli disse Leone.
- Stasera porto in me un grande cielo luminoso - rispose Francesco. - E una invisibile allodola vi canta a perdifiato, celebrando la vittoria del Signore.

Un’ora più tardi Francesco stava inginocchiamo nel piccolo oratorio dell’eremo. Si sentì tirare per la manica. Alzò gli occhi e vide il volto di Rufino che si chinava su di lui.
- Oh, frate Rufino - esclamò Francesco.
- Buonasera, Padre - soggiunse Rufino con un largo sorriso. - Vorrei parlati, ma non subito. Fra qualche giorno, se me lo consentirai.
- Quando vorrai - gli rispose Francesco. - Tu sai che io son sempre qui. Si direbbe, frate Rufino, che hai ritrovato la gioia!
- Sì, Padre; ed è appunto questo ch’io volevo dirti fin da stasera, senza attendere oltre. Il resto te lo dirò a suo tempo.
- Dio sia lodato! - esclamò Francesco, alzandosi in piedi. E lo abbracciò.

venerdì 16 agosto 2013

Bisognava seguirlo fino in fondo e lasciarsi condurre, come Cristo da Dio, attraverso un abisso di squallore fino a gustare, in una solitudine atroce, l’aspro sapore della morte del Figlio dell’uomo.


Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Un’allodola canta sui campi arati - cap. 7

L’indomani, il Venerdì Santo, Francesco volle trascorrere l’intera giornata in solitudine, meditando sulla Passione di Cristo. Aveva scelto a tale scopo un luogo selvaggio la cui austerità si intonava al grande evento che gli colmava il pensiero ed il cuore. Volendo immedesimarsi coi sentimenti del Signore, Francesco prese a declamare il Salmo già recitato da Cristo sulla Croce. Ad ogni versetto faceva una pausa per consentire alle parole di invaderlo fin nel fondo dell’anima. Dinanzi alla Parola egli si sentiva, come sempre, indifeso. La lasciava venire e la lasciava pesare su di lui con tutto il peso della sua suggestione. Ma alla fine, era sempre lei che lo sollevava e lo trasportava.

Ora, mentr’egli pronunciava le parole: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?», Francesco si sentì più che mai colto da quel senso di abbandono già espresso dal Signore. Si sentì d’improvviso affratellato a Cristo nel dolore. Queste parole non gli erano mai parse chiare come ora. Gli si eran fatte familiari. Da mesi Francesco andava cercando il volto di Cristo. Da mesi aveva l’impressione che Dio si fosse distolto da lui e dal suo Ordine.
Ora capiva l’agonia di Gesù: come un’assenza del Padre, come un senso di fallimento e come un moto fatale ed assurdo degli eventi nel corso dei quali l’uomo e le sue buone intenzioni vengono disperse e sopraffatte da un gioco di forze inesorabili.
La Parola del Salmo si impossessava del cuore dì Francesco, senza provocare il ripiegamento su se stesso e senza rinchiuderlo nel suo dolore. La parola del Salmo lo apriva, al contrario, alla parola di Cristo fin dal fondo dell’anima sua. A Francesco sembrava di non aver contemplato questo dolore se non dall’esterno. Ora lo vedeva dal di dentro e vi prendeva parte. Ne faceva personalmente l’esperienza fino alla nausea. Ora egli si sentiva del tutto immedesimato col Cristo. Da lungo tempo Francesco aspirava ad imitare in tutto il Signore. Da quando s’era convertito non aveva desistito da questo sforzo. Ma per quanto ci si adoperasse, non sapeva ancora in verità cosa fosse l’immedesimazione col Signore. E come avrebbe potuto saperlo? L’uomo non può conoscere altro che i dati della propria esperienza. Seguire Cristo a piedi nudi, con la sola tonaca indosso, senza bastone, senza borsa, senza viveri, era già qualcosa, di certo. Ma non era che un inizio, un primo passo. Bisognava seguirlo fino in fondo e lasciarsi condurre, come Cristo da Dio, attraverso un abisso di squallore fino a gustare, in una solitudine atroce, l’aspro sapore della morte del Figlio dell’uomo.

giovedì 15 agosto 2013

Se uno dei suoi primi seguaci, quale Rufino, aveva potuto allontanarsi tanto facilmente da lui, che assegnamento poteva farsi sulla fedeltà di quella folla di frati appena conosciuti?


Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Un’allodola canta sui campi arati - cap. 7

Nel corso del convito, Francesco si dimostrò molto disteso. Aveva collocato Rufino al suo fianco e gli parlava con dolcezza, come se nulla fosse accaduto tra loro. Come se Rufino si trovasse lì non solo di persona, ma anche in spirito. Francesco non gli si rivolgeva mai con tono seccante. Del resto, non aveva mai assunto con nessuno il tono cattedratico. Era troppo consapevole Francesco della sua miseria ed era, inoltre, troppo semplice. Le sue parole ed i suoi atteggiamenti non gli venivano imposti dal di fuori. Egli viveva profondamente ed intensamente. E la sua pienezza di vita e di bontà s’irraggiava d’intorno, senza alcuna premeditazione, secondo un ritmo tutto personale.
Rufino fu commosso da questa accoglienza. Molto più che non lasciasse vedere. Ma aveva la sua idea fissa e non intendeva rinunciarvi. D’altronde, non era essa un suggerimento di Dio? Bisognava, pertanto seguirla fìno in fondo.

Rufino prese congedo dai frati all’improvviso, scuro e chiuso in volto. 
Francesco lo seguì mentre si allontanava e si guardò bene dal rivolgergli la parola. Lo seguiva con lo sguardo sperando che all’ultimo momento Rufino si sarebbe voltato indietro. Se Rufino si fosse voltato, avrebbe visto due braccia tese verso di lui: due lunghissime braccia che non potevano staccarsi da lui e che lo assistevano e lo sostenevano fino al colmo del suo smarrimento. Ma Rufino scomparve, e Francesco restò ancora a lungo fisso in quella direzione. Poi le braccia gli ricaddero pesanti di tristezza. Egli s’era illuso per un istante di poter ricuperare Rufino e ricondurlo nella famiglia dei frati. Ora Francesco avvertiva quanto fosse precaria quell’impresa. Rufino gli voltava le spalle e gli sfuggiva. Ma per quanto tempo ancora?

Francesco andò a sedersi ai piedi d’una rupe.
Il cuculo cantava nel bosco. L’aria era tiepida e dorata. Ma Francesco non vedeva il sole, né udiva il cuculo. Aveva freddo e pensava a frate Rufino e agli altri: agli altri tutti, dal primo all’ultimo. Se uno dei suoi primi seguaci, quale Rufino, aveva potuto allontanarsi tanto facilmente da lui, che assegnamento poteva farsi sulla fedeltà di quella folla di frati appena conosciuti? La piaga dell’anima sua, già lenita da Chiara, tornava ora a riaprirsi e a sanguinare. Quindici anni di sforzi, di vigilanza, di esortazioni per giungere a questo triste risultato! La sua fatica era stata del tutto vana. Era uno scacco, il suo, un duro scacco. Ed egli ne risentiva l’offesa, non già a se stesso, ma a Dio, all’onore di Dio.

mercoledì 14 agosto 2013

- Ebbene, sia - soggiunse Rufino, alzandosi in piedi bruscamente. - Ci verrò, dal momento che tu ci tieni tanto.

Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Un’allodola canta sui campi arati - cap. 7

Era cominciata la settimana santa.
I Cristiani si accingevano tutti a festeggiare solennemente il mistero della morte e della resurrezione del Signore. Furono sospesi i lavori campestri e sopite le dispute. Il popolo si affollava nelle chiese. Le funzioni sacre facevan parte della vita, come il lavoro e le dispute, ma ne facevan parte più profondamente. Tutti sentivano il bisogno di lavarsi nel sangue di Cristo. Era un bisogno quasi fisico di rinnovamento, di ringiovanimento e di resurrezione. Fin nei villaggi più sperduti, dovunque ci fosse un sacerdote, la terra cristiana si imbeveva del sangue di Cristo e si faceva più pura e più forte. La cristianità rinverdiva. Nasceva una nuova primavera.

Anche all’eremo i frati si accingevano a celebrare la Pasqua.
Essi sentivano il bisogno di rimettersi a nuovo. Il giovedì santo Francesco invitò i suoi frati a celebrare tutti insieme la Cena del Signore. Essi si sarebbero comunicati tutti alla stessa Messa e poi avrebbero preso parte ad un convito fraterno. Nel fare quest’invito, Francesco pensò sopra tutti a frate Rufino. Durante tutta la Quaresima questi s’era tenuto in disparte dai compagni.
Frate Leone si recò da lui per comunicargli l’invito di Francesco.
- Di’ a frate Francesco che non verrò - ribatté Rufino. - Del resto, non intendo più seguirlo. Voglio restar qui in solitudine. Così facendo son più sicuro di salvarmi, anziché indulgere ai capricci di frate Francesco. Il Signore stesso me ne ha dato assicurazione.
Quando Francesco lo seppe, ne fu rattristato fin nel profondo del suo cuore. Mandò frate Silvestro presso Rufino per indurlo a venire. Ma questi rifiutò di nuovo.
Si diede, pertanto, inizio alla Santa Messa senza Rufino. Questa assenza torturava Francesco che, prima della Elevazione dell’Eucarestia, spedì un terzo frate a chiamare Rufino.
- Vai a dirgli che venga almeno a vedere il Corpo di Cristo!
Ma Rufino non si mosse, simile alla roccia su cui stava seduto.
Dopo la Comunione, Francesco, al colmo della tristezza, si ritirò in disparte per piangere.
- Fino a quando, o Signore - diceva Francesco tra le lacrime - lascerai che il mio agnello così semplice si perda?
Poi, Francesco, s’alzò di scatto e si recò di persona presso Rufino nel suo ritiro. Allorché questi scorse la figura di Francesco, ne fu colpito; ma non si mosse.
- Perché, frate Rufino, m’hai tu inflitto questo grande dolore? Io t’ho fatto chiamare per ben tre volte e tu ti sei sempre rifiutato di venire. E in un giorno come questo per di più! Perché? Dímmene il perché - supplicava Francesco.
Nelle sue parole non suonava accento di rimprovero. Parlava in lui l’angoscia d’una madre. Tutto il suo essere in quell’istante era proteso verso Rufino. Trattenendo il respiro, Francesco spiava il volto del frate. Che mai non avrebbe fatto per aiutarlo ad aprirsi ?
- Te l’ho già fatto sapere il perché - rispose Rufino, con un tono di voce tra il burbero e l’impacciato. - Mi sembra più sicuro seguire la strada dei vecchi eremiti anziché le tue fantasie. Se ti dessi ascolto, ne verrei sempre distolto dalla via della preghiera. Così avvenne già in passato, quando tu mi mandavi a predicare or qui or là, o a curare i lebbrosi. No, non è questo che il Signore vuole da me. Il mio stato di grazia coincide con la preghiera, lontano dagli uomini. Lontano dagli uomini, lontano da tutto.
- Ma in questi giorni in cui il Signore stesso volle celebrare la Pasqua con i suoi apostoli, tu non puoi rifiutarti di venire a cena con noi - disse Francesco.
- Ti assicuro che non ne vedo l’utilità. Preferisco restar solo, come il Signore mi ha suggerito rispose Rufino.
- Il Signore è la dove sono i tuoi fratelli replicò dolcemente Francesco. - Orsù, frate Rufino, in nome della carità che è Dio stesso, te ne supplico, fammi questo favore. Tutti i frati ti aspettano. Essi non possono dare inizio al convito pasquale senza di te.
- Ebbene, sia - soggiunse Rufino, alzandosi in piedi bruscamente. - Ci verrò, dal momento che tu ci tieni tanto.
Poi aggiunse brontolando:
- Ma non rinuncio al mio progetto. Tornerò qui il più presto possibile.

martedì 13 agosto 2013

Ebbene - soggiunse il contadino in tono confidenziale e con una manata sulla spalla del Santo cerca d’essere buono come ne hai fama. Molta gente ha riposto in te la propria fiducia. Non devi deluderli.


Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

È l’alba che s’accende? - cap. 6

Il sentiero percorso da Francesco e da Leone intersecava ad un certo punto una strada che i contadini e i pastori prendevano per scendere o salire coi loro carretti. Uno d’essi ne discendeva proprio in quel momento. Camminava il contadino a fianco di due grandi bovi bianchi aggiogati ad un carro. Piccolo, corpulento, rosso in viso e dallo sguardo ingenuo quel contadino altri non era che Paolo. Egli viveva in una capanna che i frati dell’eremo visitavano spesso nel corso delle loro questue. Era un brav’uomo, Paolo, molto devoto ai frati. Ma gli piaceva un po’ troppo il vino. Sua moglie si occupava delle semine e se ne intendeva. Quando gli si presentava l’occasione di scendere al villaggio, Paolo ci andava volentieri come ad una festa.
- Buongiorno - esclamò Paolo al vedere i due frati.
- Buongiorno, Paolo - ribatté frate Leone che lo riconobbe subito.
- Sono sempre felice quando mi imbatto nei frati - disse il contadino fermandosi con i buoi.
- Scendi, forse, al villaggio? - chiese Leone.
- Sì, devo andarci - rispose il contadino con una scrollata di spalle. - I miei bovi han bisogno d’essere ferrati. Anche il carro ha bisogno di qualche riparazione. E poi - aggiunse con malizia - ci sono io che ho bisogno di un po’ di buon vino.
Questa dichiarazione ingenua ed il candore del contadino divertirono Francesco che si mise a ridere.
- Orsù, Paolo - disse Francesco - sei sincero almeno. Un po’ di vino non può farti male. Ma sta attento! Non devi berne più d’un bicchiere.
Il contadino rideva di buon cuore. Poi, fissando con attenzione Francesco, assunse un aspetto grave.
- Non sei tu, forse, frate Francesco? – chiese Paolo. - I frati dell’eremo che vengono a questuare da noi, ci hanno detto che frate Francesco viveva con essi lassù, sulla montagna.
- Sono io - rispose con semplicità Francesco.
- Ebbene - soggiunse il contadino in tono confidenziale e con una manata sulla spalla del Santo cerca d’essere buono come ne hai fama. Molta gente ha riposto in te la propria fiducia. Non devi deluderli.
- Dio solo è buono, Paolo - ribatte Francesco. - Io non sono che un peccatore. Ascolta bene quel che ti dico: se l’ultimo dei cialtroni avesse ricevuto le grazie che mi sono state largite, egli mi supererebbe di gran lunga in fatto di santità.
- E io - riprese il contadino - potrei diventare santo?
- Certamente, Paolo - rispose Francesco. - Anche tu, come me, sei amato da Dio. Ti basterà aver fede in questo amore per vedere il tuo cuore trasformarsi.
- Noi altri siamo tanto lontani da queste cose ribatté il contadino. - Dovresti venire a trovarci. Ne abbiamo tutti un gran bisogno. Arrivederci a presto, spero.
Il contadino diede una manata sul collo dei bovi per rimettere in marcia, mentre con l’altra mano faceva un cenno d’addio ai frati.
Francesco e Leone giunsero poco dopo al sommo della prima collina donde vedevano la montagna. Questa aveva riacquistato il suo aspetto verdeggiante e fiorito. La montagna si ergeva in una luce purissima e sotto un cielo di colore azzurro intenso. D’intorno, i valloncelli popolati d’ulivi sembravano strade di verdura che si assottigliavano tra i fianchi aridi del monte. Ciuffi di narcisi gialli esplodevano al sole come macchie d’oro. Laggiù, all’orizzonte, la catena dei monti si profilava nell’azzurro con la sua mole tondeggiante e grondante luce solare.
- Quant’è bello - esclamò Francesco. -E fra pochi giorni risplenderà su tutto questo la gloria del Signore risuscitato. Non odi tu, frate Leone, la sinfonia del Creato che, fin nei suoi abissi, si prepara a cantare l’alleluia di Pasqua?

lunedì 12 agosto 2013

Spesso, strada facendo, gli tornavano alla memoria le parole di Chiara: «La distruzione del convento è un fatto troppo grande perch’io possa esserne turbata in cuor mio». E questo pensiero gli bastava a riacquistare un po’ di serenità.


Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

È l’alba che s’accende? - cap. 6

Al momento della partenza, Chiara disse a Francesco:
- Ci fareste un grande favore? Si tratta di poca cosa. Le sorelle hanno raccolto, l’ultimo autunno, dei semi di fiori; sono fiori bellissimi e fioriscono molto facilmente. Eccone un sacchetto. Prendeteli e seminateli lassù, sulla montagna.
Chiara conosceva l’amore che Francesco nutriva per i fiori e pensava che ciò lo avrebbe aiutato a bandire dal suo cuore le piante amare.
- Vi ringrazio - disse Francesco, prendendo il sacchetto di semi. Mi fate un grande piacere ed io non mancherò di seminarli.
Poi prese congedo da Chiara e dalle sue sorelle, in compagnia di frate Leone.
La strada del ritorno parve a Francesco meno lunga. Egli procedeva con passo più spedito. Nel suo essere qualcosa in una maniera quasi impercettibile s’era rimesso in moto. Non cessava di soffrire, ma soffriva in modo diverso. Il suo dolore s’era fatto meno aspro. Spesso, strada facendo, gli tornavano alla memoria le parole di Chiara: «La distruzione del convento è un fatto troppo grande perch’io possa esserne turbata in cuor mio». E questo pensiero gli bastava a riacquistare un po’ di serenità.
Dopo una lunga marcia, Francesco e Leone lasciarono la strada e ripresero il sentiero che saliva lungo il fianco del monte all’ombra dei faggi e delle querce e che portava all’eremo. La primavera era esplosa per ogni dove. Gli alberi esibivano le loro foglie nuove. I raggi del sole si posavano, in mezzo al canto degli uccelli, sul verde tenero e dorato delle foglie. Dal sottobosco umido e caldo saliva un aroma di muschio, di foglie morte e di violette in fiore. Ciuffi di ciclamini rossi fiorivano ad ogni passo. Anche la natura viveva e riposava nel tempo di Dio, il tempo delle origini. La terra con la sua vita segreta era rimasta fedele al tempo di Dio, come le stelle del cielo. I grandi alberi del bosco offrivano le frondi al soffio di Dio come nei primi giorni della Creazione, con lo stesso leggero fremito. L’uomo, lui solo, era uscito da quel tempo primordiale. L’uomo aveva voluto farsi la sua strada e vivere in un tempo esclusivamente suo. Da quel giorno l’uomo aveva perso il dono del sonno, sconvolto dai tedi e dal presentimento della morte.

domenica 11 agosto 2013

Ciò che Dio stesso ha costruito non può fondarsi sulla volontà o sul capriccio d’una creatura umana. L’edificio di Dio si fonda su basi ben più solide.


Eloi Leclerc, La sapienza di un povero

È l’alba che s’accende? - cap. 6

Ci fu ancora una pausa di silenzio. Poi Chiara riprese:
- Supponiamo che una delle nostre sorelle venisse da me a scusarsi d’aver rotto un oggetto per via d’un gesto maldestro o di poca attenzione. Ebbene, io le farei senza dubbio un’osservazione e le infliggerei, come d’uso, una penitenza. Ma se ella venisse a dirmi d’aver dato fuoco al convento e che tutto è bruciato o quasi, credo che in tal caso non avrei nulla da ribattere. Io mi sorprendereisopraffatta da un avvenimento più grande di me. La distruzione del convento è un fatto troppo grande perch’io possa esserne profondamente turbata. Ciò che Dio stesso ha costruito non può fondarsi sulla volontà o sul capriccio d’una creatura umana. L’edificio di Dio si fonda su basi ben più solide.
- Deh, se soltanto avessi la fede grande come un grano di senape! - sospirò Francesco.
- Direste a questa montagna: «Togliti di lì», e la montagna si dissolverebbe - aggiunse Chiara.
- Sì, è così - confermò Francesco. - Senonché sono diventato ora come un cieco. Bisogna che qualcuno mi prenda per mano e mi guidi.
- Non si è ciechi se si vede Dio - replicò Chiara.
- Ahimé - riprese Francesco - nella mia notte io vado brancolando e non vedo niente.
- Ma Dio vi guida lo stesso - sentenziò Chiara.
- Lo credo, malgrado tutto - concluse Francesco.
Si sentivano gli uccelli cantare nel giardino. Lontano, nella pianura, un asino ragliò. Una campana prese a suonare con rintocchi ben distinti.
- L’avvenire di questa grande famiglia religiosa che il Signore ha affidato alle mie cure - riprese Francesco - costituisce un fatto troppo importante perché possa dipendere da me solo e dalle mie deboli forze, sì ch’io ne resti turbato. È un fatto questo di Dio. Voi l’avete ben detto. Ma pregate che questa parola fiorisca in me come un seme di pace.
Francesco si trattenne qualche giorno a San Damiano.
Le cure di Chiara gli fecero riprendere un po’ di forze. Nella pace di quel convento e nella dolce luminosità della primavera umbra, Francesco appariva liberato dalle sue inquietudini. Ascoltava felice il canto delle allodole. Le seguiva con lo sguardo su nell’azzurro infinito dov’esse si perdevano. Chiuso di notte in una capanna in fondo al giardino, Francesco passava le sue ore, insonni, assorto nella visione di cieli stellati. Le stelle non gli erano mai apparse tanto belle. Gli sembrava di scoprirle tutte per la prima volta. Esse lucevano chiare e preziose nel vasto silenzio della notte. Nulla le conturbava. Appartenevan esse, senza dubbio, al tempo di Dio. Le stelle non disponevano né di una volontà, né di un moto loro, esse si uniformavano semplicemente al ritmo di Dio. Perciò nulla poteva turbarle, dal momento che vivevano nella pace di Dio.
Frattanto Francesco si accingeva a tornare all’eremo. Pensava ai suoi frati rimasti lassù senza di lui. E pensava soprattutto a Rufino che considerava esposto ad un grave pericolo. La festa di Pasqua era molto vicina. Aveva fretta di rincasare Francesco per festeggiare coi suoi frati la Resurrezione di Cristo.