sabato 6 aprile 2013

Rinnoviamo l’uomo. Questa sarebbe la vera soluzione: meglio, l’impegno da prendere. Ma oggi, l’uomo ne ha le capacità? Ragionando concettualmente, non ne dovrei dubitare: ma davanti ai fatti, mi faccio estremamente cauto

INEDITO avvenire
 Il dubbio non è di oggi e non sono neanche il primo a pensarlo: oggi, però, me lo trovo davanti con volto nient’affatto accademico: oggi c’è dell’angoscia in chi pensa col cuore. Lo so purtroppo che il finire della storia difficilmente è regolato dai contemplatori: so pure che, nonostante il costo crescente del progresso, la più stupida delle religioni, noi continueremo su questa strada della speranza di pagare un giorno un po’ meno le nostre comodità: ma so pure che comodità non vuol sempre dire vivere da uomini. E se esiste una intraducibilità, non è ragionevole che, dimenticando per un attimo la lusinga dell’utile immediato, misuriamo la pericolosità del nostro «vivere civile». Non c’è scoperta che non sia stata usata male e che il mal uso di essa non sia pesantemente ricaduto sull’uomo. Mi dispenso dalla documentazione. La colpa è dell’uomo che non vuole usarne bene. Sì, la colpa è nostra: ma constatare un fatto non vuol dire spiegarlo. C’è da vedere come mai non abbiamo saputo finora ovviare il grosso guaio di farci del male con le nostre mani: se ne possediamo la capacità; se è giusto che per un breve utile, limitato anch’esso a pochi, ci portiamo dietro, quasi fossimo dei condannati, non la croce ma il capestro di questa civiltà. Prima di rispondere conviene riproporre, in termini semplici e reali, il problema dell’uomo e del suo destino. Il problema è grosso e le risposte sono molte. Senza pretendere d’imporre la mia, immagino che nessuna creatura ragionevole sia disposta ad accettare per sé e per i suoi una condizione umana, in cui un breve quasi ebbro respiro venga fatalmente scontato da una sorte paurosa, che scardina e inghiotte le cose nostre. Che piacere può dare una casa a dieci piani, se la so destinata a rovinare sotto un tappeto di bombe col rischio di rimanervi sepolto con la mia famiglia? È da meno di una tenda o di un capanno di cocomeraio, ove, in qualche modo, mi riparo dalle intemperie e posso stare al sicuro dalle insidie degli uomini troppo intelligenti. Chi non farebbe volentieri senza aeroplani? I modesti servizi che hanno reso e che potranno rendere non compensano le rovine e i massacri che hanno causato. La prima bomba atomica distrugge Hiroshima, avanti di garantire «la pace». D’accordo. Ma se non riesco a guarirmi e queste scoperte provocano ed eccitano la mia sonnecchiante malvagità, non sarebbe da savio rinunciarvi, fino a quando almeno mi sentirò più padrone di me? Non è giusto che si spezzi una macchina per il solo fatto che ci abbiamo cavato un guaio. Rinnoviamo l’uomo. Questa sarebbe la vera soluzione: meglio, l’impegno da prendere. Ma oggi, l’uomo ne ha le capacità? Ragionando concettualmente, non ne dovrei dubitare: ma davanti ai fatti, mi faccio estremamente cauto. Finora, e sono anni e anni, nonostante il molto predicare, abbiamo piuttosto peggiorato. Due guerre di inaudita barbarie teorica, in un quarto di secolo, e rivoluzioni altrettanto distruttrici, non bastano a farci persuasi che le autoblinde, i carri armati e adesso le bombe atomiche non servono la libertà e l’indipendenza, ma le tirannie e le dittature? Gli ordigni non ne hanno colpa, è vero: ma se ci mettono in tentazione di far male, perché fabbricarli? Almeno, fino a quando saremo in condizione d’animo di usarne senza nocumento. Come un tempo c’erano mostri naturali contro cui l’uomo primitivo dovette lottare fino al loro sterminio, così vi sono oggi mostri artificiali contro cui bisogna insorgere, non essendo capaci di domarli. Si salveranno le invenzioni che riusciremo a rendere umane, come si sono salvati gli animali che l’uomo ha saputo addomesticare. Meno potenti e un po’ più uomini. È duro riconoscere che siamo gente limitata e che abbiamo bisogno di un limite anche al genio. Ma non si mortifica il genio: si ferma l’uomo sulla linea dell’uomo. Quante rovine e asservimenti in terra d’uomo, col pretesto di farci grandi! Vogliamo scuotere anche le catene di questa disumana grandezza che ha bisogno di miracoli fatturati e di troppi schiavi. Che ne faremo di questi mostruosi strumenti della nostra civiltà meccanica? Li metteremo in un museo, accanto ai dinosauri antidiluviani: e quando saremo veramente fratelli tra di noi, se ce ne resterà il gusto, li tireremo fuori. Panoramica di Otemachi, nella città di Hiroshima, situata ad un chilometro dal punto centrale dello scoppio della bomba Don Primo Mazzolari

venerdì 5 aprile 2013

Ma i ricchi, che son più accorti, ci fanno la corte volentieri, e noi ci caschiamo dentro nell'inganno: con loro contro i poveri.


Pubblichiamo un estratto dalla recentissima antologia Il prete di "Adesso" (Roma, Rogate, 2009, pagine 141, euro 12) a cura di Leonardo Sapienza.

di Primo Mazzolari
Dicono tutti che è l'ora dei poveri, sotto nomi diversi di "povera gente", "massa lavoratrice", "proletariato". Di quest'ora che mi fa pensare all'evangelico "è giunto il momento, ed è questo" (Giovanni, 4, 23), nessuno se ne rallegra al pari di un prete, che, nonostante il "si dice", con la povera gente vive veramente gomito a gomito in campagna e alla periferia, e vede come tira e quanto patisce:  ma non vorrei che un giorno i poveri, arcistufi di tante e sviscerate concorrenti dichiarazioni di amore, dicessero a questi e a quelli:  "vogliateci un po' meno bene e trattateci un po' meglio".
L'allarme è (...) per timore di un possibile baratto - purtroppo già in atto un po' ovunque - tra una "primogenitura e un piatto di lenticchie" (cfr. Genesi, 25, 29ss.).
La colpa però di una simile tentazione, se si vuol essere onesti e non pesare soltanto su chi ha fame, ricade in gran parte su coloro che li hanno lasciati nella necessità. Quand'uno non ne può più, come pretendere che ragioni da uomo e misuri se il baratto gli convenga o no? Molto più che da questa parte, la nostra, ove c'è la "promessa" della primogenitura, ci sono parecchi cui non importa affatto la primogenitura, si fan belli di essa al solo scopo di tener indietro coloro che offrono ai poveri il piatto di lenticchie. Il piatto di lenticchie è prelevato su quello che credono di avere, mentre la primogenitura può divenire un comodo pretesto di resistenza al comunismo.
E molti preti abboccano e ringraziano tali infidi e poco onorevoli alleati, dimenticando che non sono i comunisti che ci perdono, ma la povera gente, la quale rimane qual era, senza "primogenitura" e senza "lenticchie", mentre i ricchi si pappano queste e credono di avere diritto pur su quella, quasi non fosse stato detto:  "È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli" (Matteo, 19, 24).
I poveri vanno amati "Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1 Giovanni, 3, 18) come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto di ipoteca, neanche quella di farli cittadini del Regno dei Cieli, molto meno dei proseliti. Cittadini del Regno dei Cieli i poveri sono già per diritto di chiamata evangelica. La carità di ogni specie non c'è bisogno che renda:  è feconda e perfetta in sé quand'è vera carità.
Gesù disse al paralitico:  "Alzati e cammina" (Matteo, 9, 5). Alla parola sacramentale che opera il miracolo, non aggiunge:  "E va' in Chiesa" e molto meno:  "Vota questa lista".
Neanche un "grazie" si può pretendere, dato che la carità non è una cosa che uno possa fare o non fare, un'azione "superogatoria", "un di più". Il secondo comandamento, che è simile al primo e gli fa da compimento o di riprova:  "Amerai il tuo prossimo come te stesso", è un fondamentale dovere, non un consiglio. Ed è su quello che verremo giudicati.
Per questo accade che sono molti quelli che dicono di amare i poveri e pochi coloro che li amano di cuore.
I poveri lo sanno e s'adattano al baratto, e si credono pari, mentre sul piano quantitativo son gli altri che ci guadagnano, poiché la primogenitura è come l'olio della lampada, non si può neanche imprestare (cfr. Matteo, 25, 1 ss.).
Io prete, sprovveduto per investitura di ogni mira temporale, dovrei essere il più adatto per il "ministero dei poveri".
La Parola è predicata ai poveri:  la Grazia è per i poveri. (Chi più povero di un peccatore?). Tutto è per il "povero", poiché basta essere uomo per essere "povero", sostanzialmente e irrimediabilmente "povero". Prete dei poveri quindi, come si è definito, secondo il Vangelo, san Vincenzo de' Paoli:  che non fa torto a nessuno, e non scantona davanti a nessuno, poiché tutti gli uomini, i ricchi in prima fila, sono dei poveri. La povertà è l'unica condizione dell'uomo, che il peccato ha finito per alterare al pari di ogni altra condizione:  e così avviene che ci sono poveri che si credono ricchi e poveri che si rifiutano o si vergognano di esserlo.
Il primo diviene cattivo per paura di perdere ciò che stima di avere:  e l'altro si incupisce per timore di essere stato defraudato.
Il benestante è malato come il fariseo. Essendosi appropriato di qualche cosa che è solo del Padre, si crede diverso dagli altri che non hanno niente. E davanti all'altare prega come il fariseo:  "O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini..." (cfr. Luca, 18, 11), ho casa, campi, automobile e ville.
Quando i poveri sentono pregare in tal modo e vedono che c'è qualche prete che sarebbe disposto a mettere l'imprimatur su tale preghiera, non solo si sentono offesi e umiliati, ma sono in tentazione di non credere che ci sia un Padre comune, il quale, se è vero - così ragionano nella loro disperazione - che vuol bene a tutti e può tutto, le cose di quaggiù non le dovrebbe lasciare andare così.
E i ricchi, a loro volta, ispessiti nel cuore dai loro averi e sempre timorosi di perderli, se la prendono col Signore, che mette al mondo tante bocche.
Così nessuno è contento di Dio, per questione di una ricchezza "che tignola e ruggine consumano e ladri scassinano e rubano" (Matteo, 7, 20). E se non c'è la ruggine o la tignola, se non vengono i ladri, arriva la morte:  "Stolto, questa notte tu morirai" (Luca, 12, 20).
Il sacerdote, pur avendo lo sguardo sulla condizione dell'uomo, che è di comune e irrimediabile povertà finché si rimane sul piano delle cose che "oggi sono e domani non sono" (cfr. Matteo, 6, 30) e che anche quando sono "ingombrano invece di saziare", si inserisce in questo momento esterrefatto del peccato, che separa gli uomini in ricchi e poveri.
Il suo ufficio non è quello di far ricchi i poveri o poveri i ricchi con accorgimenti legali o di ordine economico-sociale.
Che vi sia chi lo tenti questo lavoro di equità, è buona e doverosa cosa specialmente per un cristiano che non voglia rinnegare la fraternità. Ed è pure buona cosa che il sacerdote inviti e suggerisca tale sforzo, che entra nei normali doveri della società cristiana; ma la sua propria funzione è di portar via il peccato, che crea le disuguaglianze e ogni male. "Ecco l'Agnello di Dio, ecco Colui che porta via i peccati del mondo" (cfr. Giovanni, 1, 36).
Se va via il peccato dal nostro cuore, si fa anche l'"eguaglianza" e i vasi comunicano. E siccome il peccato è purtroppo un retaggio comune, patrimonio tanto dei ricchi come dei poveri, dato che il male è dentro di noi, e il "bicchiere va lavato dal di dentro", il sacerdote deve predicare agli uni e agli altri:  ai ricchi che fanno del possedere il "mammona", ai poveri che misconoscono la loro grande dignità per il solo fatto che non ha contropartita immediata.
Da secoli, da quando Cristo ci ha mandato "a predicare la buona novella ai poveri" (cfr. Luca, 4, 18) ci troviamo in questo poco comodo ufficio. Né i poveri ci ascoltano, né i ricchi ci ascoltano:  e ciò che ancor più ci umilia, par che abbiano lor buone ragioni tanto questi che quelli. I ricchi dicono:  è coi poveri contro di noi:  adula i poveri per averli in mano contro di noi. I poveri dicono:  tiene coi ricchi perché sono i più forti e lo foraggiano.
Non è raro il caso che ricchi e poveri si mettan d'accordo, come Erode e Pilato, per farlo tacere (cfr. Luca, 23, 12).
A sua volta il prete, che è un uomo, cioè un pover'uomo, come ognuno se non di più, può essere preso dalla tentazione di togliersi da questa scomoda e assurda condizione, spostandosi verso destra o verso sinistra, e non per motivi volgari, ma dietro pretesti magistralmente ragionati. "I ricchi sono irriverenti, mangiapreti, irreligiosi, senza cuore". "I poveri, socialisti, bolscevichi, materialisti, atei...".
E in una vicenda che è spirituale, si finisce con alleati e mezzi di tutt'altro genere.
Ma i ricchi, che son più accorti, ci fanno la corte volentieri, e noi ci caschiamo dentro nell'inganno:  con loro contro i poveri. D'onde le sequele di accuse e di pregiudizi che ben conosciamo e che fortunatamente non meritiamo, ma che tengono lontano ricchi e poveri dalla strada buona.
Il Regno dei Cieli non è a destra né a sinistra, né coi poveri né coi ricchi, finché ricchi e poveri si differenziano soltanto per quello che hanno, non per quello che sono. Tra questi due fronti, che il peccato ha innalzato e che il peccato tiene in piedi, ci sta, crocifisso, il sacerdote:  crocifisso tra due ladroni, uno buono l'altro un po' meno, ma ladroni entrambi.
Questo è il suo grande e tremendo destino, aggravato dal fatto, che mentre lui ha mani e piedi inchiodati, i suoi compagni, che son legione, muovono mani e piedi, e tiran sassi e calci, l'uno contro l'altro; ma tanto i sassi come i calci finiscono contro il crocifisso che sta di mezzo e fa da sbarra. Il prete è una sbarra che ha il cuore, e il colpo, venga da destra o da sinistra lui lo riceve nel cuore, e non può ricambiarlo, neanche lamentarsi. Oscilla soltanto, ed è per grande carità:  ma gli altri dicono che parteggia perché se viene colpito a destra oscilla verso sinistra e viceversa. E così perde anche l'onore. (dal periodico "Adesso", n. 5, 1° marzo 1953).
(©L'Osservatore Romano - 8 aprile 2009)

giovedì 4 aprile 2013

Perché vertici di angoscia e abissi di abbandono non diventano sicuri messaggi?


Solo. Sempre più solo. Tutte le cose
mi circondano, ma non mi toccano
affatto. Guardo e respiro. Sono e non
sono. Non c’è più posto per me
nell’ordine delle cose. Tutto mi è
estraneo. Perché non c’è nessun Dio?
Perché vertici di angoscia e abissi
di abbandono non diventano sicuri
messaggi? Nessuno ascolta la mia voce
interiore. Solo. Se ci fosse un Dio,
visiterebbe, credo, la mia solitudine.
Cahiers, cioè i “quaderni” di note spesso autobiografiche del poeta francese Paul Valéry (1891-1945)

Giorgio Caproni (1912-1990), aveva raffigurato in modo lapidario quella scena che si ripete anche spesso nei palazzi delle nostre città: 
“Un uomo solo. 
Chiuso nella sua stanza. 
Con tutte le sue ragioni. 
Tutti i suoi torti. 
Solo in una stanza vuota, 
a parlare. 
Ai morti” 
(Condizione).

Quel Dio, che Valéry sospetta che non esista o che comunque se ne stia impassibile nel suo cielo dorato, è pronto a venire accanto a queste sue creature infelici. 
Bisogna coglierne il passo silenzioso e la voce misteriosa. 
Come fa il Salmista che canta: “I passi del mio vagare tu li hai numerati, le mie lacrime nell’otre tuo raccogli; non sono forse registrate nel tuo libro? (Salmo 56,9).

mercoledì 3 aprile 2013

Una spiritualità del conflitto presuppone tuttavia che ciascuno si esamini sui suoi limiti e i suoi peccati, in modo che il conflitto si trasformi in occasione di conversione.

Di sua propria natura, il conflitto porta a vedere nell’altro i limiti e il peccato. Una spiritualità del conflitto presuppone tuttavia che ciascuno si esamini sui suoi limiti e i suoi peccati, in modo che il conflitto si trasformi in occasione di conversione. Vi sarà inoltre così la garanzia che nel conflitto non si cerca la propria verità, bensì la verità; questo esempio di umiltà può anche favorire lo stesso processo di conversione nell’altro. In corrispondenza con questa genuina umiltà, si lascia anche che la storia successiva vada mostrando da quale lato si trovi la verità maggiore; di qui la disponibilità a lasciarsi verificare dai fatti, a cambiare se occorre; in ogni caso, a non mantenere dogmaticamente quanto in un primo momento, sia pure in buona fede, era stato creduto verità
I criteri di verifica sono forniti, in ultimo termine, dallo stesso Spirito di Dio nel momento presente. Possono però essere descritti sulla base del vangelo: l’annunzio della buona notizia ai poveri, l’assunzione della loro difesa e del loro destino. In questo modo, la Chiesa va somigliando di più a Gesù nella sua vita e nella sua morte, va ottenendo maggior credibilità davanti ai poveri e prediletti di Dio, e va crescendo nella santità, la cui verifica ultima è costituita dalla persecuzione e dal martirio per amore. (Jon Sobrino, Tracce per una nuova spiritualità).

martedì 2 aprile 2013

Su questo dormire di Gesù in noi, e sulla responsabilità che spesso noi ne abbiamo

“Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Gesù se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva” (Mc 4, 37-38)
Benedetto uomo, non sai che non puoi dormire? 
Che se dormi tu, tutto va in malora? 
Su questo dormire di Gesù in noi, e sulla responsabilità che spesso noi ne abbiamo, qualche tempo fa avevamo mandato ad un nostro amico una citazione di 
sant’Agostino, che diceva così

“Se hai sentito un insulto, è come il vento; 
se sei adirato, ecco la tempesta, 
corre pericolo la nave, 
corre pericolo il tuo cuore ed è agitato. 
All’udire l’insulto tu desideri vendicarti: 
ed ecco ti sei vendicato e, godendo del male altrui, 
hai fatto naufragio. 
E perché? 
Perché in te dorme Cristo
Che vuol dire: 
In te dorme Cristo? 
Ti sei dimenticato di Cristo. 
Risveglia dunque Cristo, ricordati di Cristo, sia desto in te Cristo: considera lui... 
Quando sorge una tentazione è come il vento; tu sei agitato, c’è la tempesta. 
Sveglia Cristo: parli egli con te. 
Chi è costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono? (Mc 4, 41)”. 

Noi non sappiamo bene come sia finita, se, cioè, alla fine, il destinatario di quella nostra missiva si sia risolto a scuotere e ridestare l’Amico assopito in lui. 
Sappiamo che però, questa di Agostino, 
è una lezione valida anche e, soprattutto, per noi.

lunedì 1 aprile 2013

Da quando invece di fuggirla hai accettato di conoscerla meglio, è sparita quella sensazione di paura che ricolmava la tua vita di negatività e pessimismo.

Dio aiuta sempre coloro che si spendono per il bene degli altri, per questo ti ha dato “lei” [la malattia] come maestra e tanti compagni di viaggio. Da quando invece di fuggirla hai accettato di conoscerla meglio, è sparita quella sensazione di paura che ricolmava la tua vita di negatività e pessimismo. Hai recuperato la tua autostima e, di conseguenza, amando te stesso hai potuto amare meglio il prossimo. Il tuo cuore ha iniziato ad aprirsi sempre di più e l'amore ti ha aiutato a vincere la paura. E' stata “lei” a farti capire il tuo grande compito di amore su questa terra, la tua grande missione di far apprendere a chi ancora vive con rigetto l'intrusione di “lei” nella propria vita. Certo “lei” è un'intrusa, ma non diversamente da come lo fu Cristo per i viandanti di Emmaus. Eppoi l’amore genera cerchi virtuosi: essere “innamorati” dà gioia e quando viviamo con gioia siamo più portati ad amare. Questo crea un inarrestabile fiume d’amore che rigenera i rapporti in famiglia, nelle amicizie sempre più sincere, nei rapporti con le autorità da cui oggi dipendi ma da cui sarai sempre indipendente. Perchè loro non convivono con “lei” e quindi, anche se seri professionisti, non avranno mai niente ad insegnarti su di “lei”. Soprattutto sei tu che insegni a tutti noi che “lei” non ha più potere su di te e sulla tua libertà di pianificare il futuro. Perchè anche se “lei” un giorno porterà il tuo fisico alla morte non avrà mai la capacità di portarti via il tuo futuro, e soprattutto non vorrà farlo perchè è “lei” che te lo ha indicato. (Chiara Castellani, Dedicato a un malato di AIDS)

domenica 31 marzo 2013

Il mistero della Chiesa, il più dolce di tutti i misteri della terra, si è rivelato a noi nel segreto del cuore e noi d’un tratto abbiamo capito che la Chiesa, i Suoi doni, il Suo amore e la Sua grazia non sono per gli altri, ma per noi che l’avevamo perduta e ci eravamo smarriti.

Siamo arrivati al limite estremo, all’orrore estremo, alla disperazione ultima. E quando pensavamo che tutti i fuochi si fossero spenti e che non ci fosse più speranza, abbiamo sentito dall’alto delle voci bianche che ci annunciavano che la salvezza esiste ed è vicina. Il mistero della Chiesa, il più dolce di tutti i misteri della terra, si è rivelato a noi nel segreto del cuore e noi d’un tratto abbiamo capito che la Chiesa, i Suoi doni, il Suo amore e la Sua grazia non sono per gli altri, ma per noi che l’avevamo perduta e ci eravamo smarriti. Ci siamo accostati alle alte mura della Chiesa e di là ci ha guardati il Suo Volto, e nei raggi dello sguardo divino i nostri occhi illuminati hanno potuto vedere ciò che ci sembrava perduto per sempre, irrealizzabile, irraggiungibile. Allora abbiamo capito che per tutta la vita, dagli anni della giovinezza pieni di dubbi e di ribellione, fino all’estrema vecchiaia piena di nostalgia e di dolorosa debolezza, avevamo sempre amato Lui solo. Lui solo avevamo cercato, a Lui solo anelava il nostro cuore. Abbiamo capito che vivere e servirLo sono la stessa cosa. Allontanarsi da Lui, staccarsi da Lui, significa morire. Questa, miei cari fratelli, è la nostra comunità. (Anatolij Žurakovskij).