sabato 24 marzo 2012

l ramo di ulivo che il Signor Iddio mi ha affidato

“Devo portare agli uomini il ramo di ulivo
che il Signor Iddio mi ha affidato!
Per ora non c’è nessun luogo in cui posare:
le grandi acque si spargono a perdita d’occhio…
Per ora saranno trucidate
le mani che tenteranno di prendere il mio ramo…
Volerò a qualsiasi prezzo…
Finchè non cadrò per la stanchezza.
Finchè non sarò morta, volerò, volerò, volerò…
Il Signore Iddio che mi affidò questa missione divina,
Egli mi proteggerà!”
(Dom Hélder Camara)

venerdì 23 marzo 2012

lancia un ponte


CHI PUO’ VANTARSI DI ESSERE LIBERO
Chi non ha
prigioni nascoste,
catene invisibili,
tanto più coinvolgenti
quanto meno appariscenti?
SEI CIRCONDATO DA TE DA TUTTI I LATI
Per liberarti di te stesso
lancia un ponte
sopra all’abisso di solitudine
che il tuo egoismo ha creato.
Cerca di vedere, al di là di te stesso.
Cerca di ascoltare qualcuno.
E soprattutto,
tenta lo sforzo di amare
invece di semplicemente amare…
(H. Camara)

giovedì 22 marzo 2012

un aiuto in ogni difficoltà


Dio ti doni per ogni tempesta un arcobaleno,
per ogni lacrima un sorriso,
per ogni preoccupazione una visione
e un aiuto in ogni difficoltà.
Per ogni problema, che la vita ti manda,
un amico, un’amica per condividerlo,
per ogni sospiro un bel canto
e una risposta ad ogni preghiera.
(Antica benedizione irlandese)

mercoledì 21 marzo 2012

dalle possibilità di cercare il sole per conto suo


(Naomi Long Magdett)

Se fossi in te, non curerei troppo la pianta.
Quelle attenzioni premurose potrebbero danneggiarla.
Smetti di zappare e lascia riposare il terreno
e aspetta che sia secco prima di bagnarlo.
La foglia trova da sola la propria direzione;
...dalle possibilità di cercare il sole per conto suo.
Troppi stimoli e una tenerezza troppo assillante arrestano la crescita. 

Dobbiamo imparare a lasciare in pace le cose che amiamo.

martedì 20 marzo 2012

poniti semplicemente dinanzi a Dio


George Fox, il fondatore del Quaccherismo ed è tratto da una sua lettera del 1652:
"Sottomettetevi, e il potere verrà. Riposando sul fondamento di ogni rivelazione, state fermi e tranquilli e la forza verrà, subito. State fermi e tranquilli nella luce, sottomettetevi ad essa, e tutto il resto tacerà e scomparirà, e la gioia verrà. E quando verranno tempeste e travagli, sprofondatevi in quanto è puro, tutto tacerà e svanirà" (pp. 30-31).
Altri brani dalle sue lettere:
"Sii calmo e freddo nella mente e nello spirito, distaccato dai tuoi stessi pensieri, e sentirai il principio divino che volge la tua mente al Signore Dio, da cui riceverai quella forza e quel potere da cui la vita proviene, per calmare ogni tempesta e ogni vento [...]. Perciò arresta un momento il tuo pensare, il tuo cercare, desiderare, immaginare e dimora nel principio divino che è in te [...].
Sii fermo e silenzioso nella mente, abbandonando ogni pensiero sapiente, abile o sottile che possa passare nella tua mente, e poniti semplicemente dinanzi a Dio, senza prefiggerti alcun risultato. [...]
Voi dovete morire nel silenzio, morire con la vostra sapienza, la vostra conoscenza, la vostra ragione, la vostra intelligenza.
Dimorate in attesa nella vita, sarete oltre alla parola" (p. 34).

lunedì 19 marzo 2012

una mezz’oretta nella tua bottega di falegname


LETTERA A SAN GIUSEPPE

Manca ormai pochissimo a Natale… Se ancora non l’abbiamo fatto prendiamoci un momento di tranquillità e leggiamo questo bel testo di mons. Tonino Bello: una lettera indirizzata a Giuseppe, l’umile falegname sposo di Maria che accetta l’irruzione di Dio nella sua vita con fede e con amore. Buona lettura!
Caro San Giuseppe, scusami se approfitto della tua ospitalità e mi fermo per una mezz’oretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te. Non voglio farti perdere tempo. Vedo che ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze. Non preoccuparti neppure di rispondermi. So, del resto che sei l’uomo del silenzio.Vedi, Giuseppe, un tempo anche da noi le botteghe degli artigiani erano il ritrovo feriale degli umili, vi si parlava di tutto, di affari, di donne, di amori, delle stagioni, della vita, della morte. Il tempo passava così lento, ma forse era proprio questa lusinga di eternità a rendere preziosa un’opera di artigianato. Le cose nascevano perciò lentamente e con i tratti di una fisionomia irripetibile. Oggi purtroppo qui da noi di botteghe artigiane ne sono rimaste veramente poche. Al loro posto sono subentrate le grandi aziende di consumo: non si genera più, o meglio si concepisce solo l’archetipo, ma senza passione e con molto calcolo. Ed eccoli lì, allineati, questi elegantissimi mostriciattoli dalla vita breve, belli, ma senz’anima, perfetti, ma senza identità, lucidi, ma indistinti. Non parlano perché non sono frutto di amore, non vibrano, perché nelle loro vene non ci sono più i fremiti del tempo prigioniero. Questo è forse il sacrilegio più grave della nostra civiltà. La distruzione del tempo, e col tempo dell’amore, della fantasia, della bellezza, dell’arte. Abbiamo creduto che per fare un tavolo sia sufficiente il legno! Oh Dio! Riusciamo pure ad ammettere che per fare il legno ci vuole l’albero, e che per fare l’albero ci vuole il seme. E perfino che per fare il seme ci vuole il fiore. Ma non abbiamo più il coraggio di concludere che per fare un tavolo ci vuole un fiore! E lo lasciamo dire solo ai poeti! Ma se oggi qui da noi di botteghe artigiane è rimasto solo qualche nostalgico scampolo, non è tanto perché non si genera più, quanto perché ormai non si ripara più nulla. Da noi non si usa più! Quando un oggetto si è anche leggermente incrinato nella sua funzionalità, lo si mette da parte senza appello. La nostra la chiamiamo perciò la civiltà dell’usa e getta! Al televisore che sta in cucina si è fulminato un relè, niente paura! Viene messo da parte e sostituito con un altro che ha il video registratore incorporato. Al soprabito di velluto si è scucita la fodera? A un paio di sandali si è staccata la fibbia? Non vale la spesa ripararli! Porta via al macero, senza scrupoli.
Ma se oggi qui da noi le botteghe artigiane sono pressoché sparite non è solo perché non si genera più e neppure perché non si ripara più nulla. È perché non c’è più tempo per la carezza. Vedi Giuseppe, da quando sono entrato nella tua bottega, quante carezze non hai fatto su quel legno denudato dalla pialla! Tutte le volte che l’hai strisciato con il ferro, subito vi sei passato sopra con la mano, leggera come per compensare con un gesto di tenerezza il trauma della violenza. E anche ora, mentre ti parlo, passi e ripassi con le dita sugli spigoli smussati dallo scalpello. Quante carezze: con le palme della mano, con i pennelli, con le spatole, con gli occhi. Sì, anche con gli occhi, perché, ora che hai finito una culla, sei tu che non ti stanchi di cullarla con lo sguardo. Oggi purtroppo da noi, non si carezza più, si consuma solo, anzi si concupisce. Le mani incapaci di dono, sono divenute artigli, gli occhi prosciugati di lacrime ed inabili alla contemplazione, si sono fatti rapaci, il dogma dell’usa e getta è divenuto il cardine di un cinico sistema. Perciò si violenta tutto! E non soltanto le cose Ma anche le persone! Il corpo, degradato a merce di scambio, è divenuto spazio pubblicitario e manichino per prodotti di consumo! L’eros mercantile corrode alla radice i rapporti interumani, sgretola la comunione, frantuma l’intimità, irride la famiglia, commercializza la donna. E con i postulati di marketing degli spot televisivi, spersonalizza irrimediabilmente la sessualità, riducendola ad una variabile della cupidigia di potere.
Vedo, però che si fa tardi. Il sole, calando sulla pianura di Esdrelon, illumina di porpora gli ultimi contrafforti dei monti di Galilea. E io ancora non ti ho detto la ragione fondamentale per la quale sono venuto qui da te.
No, non è per affliggerti con le lamentazioni mistiche sulla cattiveria dei tempi, e neppure per evitare gli incroci pericolosi della mia civiltà, che ho trovato rifugio sentimentale nell’oasi della tua bottega, dove, tra tenaglie, lime e seghetti, attaccati in bella mostra alle pareti, sono rimasti attaccati anche i ricordi del tempo che fu; anzi, se ti ho dato quest’impressione di fuga all’indietro non giudicarmi un introverso pure tu, vittima magari di un raptus da regressione; bastano già gli psicanalisti che abbiamo da noi, di fronte ai quali devi difenderti dai tuoi stessi sentimenti, se non vuoi finire nella morsa della loro logica, impietosa, almeno quanto la morsa che sta sul tuo bancone di falegname!
Mio caro San Giuseppe, io sono venuto qui, soprattutto per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre di Gesù, e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la vita.
E ti dico subito che la formula di condivisione espressa da te, come marito di una vergine, la trama di gratuità realizzata come padre del Cristo, e lo stile di servizio messo in atto come responsabile  della tua casa, mi hanno da sempre così incuriosito, che ora non solo vorrei saperne qualcosa di più, ma mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi comportamentali siano trasferibili nella nostra società dell’usa e getta.
Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo stelo di un fiordaliso?
O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte, sotto l’arco della sinagoga?
O forse un meriggio d’estate, in un campo di grano, mentre abbassando gli occhi splendidi, per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di spigolatrice?
Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi?
E la notte tu hai intriso il cuscino con lacrime di felicità.
E la tua amica, la tua bella si è alzata davvero, è venuta sulla strada, facendoti trasalire, ti ha preso la mano nella sua e mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande segreto.
Solo tu, il sognatore, potevi capirla. Ti ha parlato di Jahvé. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava.
Poi ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio e di dimenticarla per sempre.
Fu allora che la stringesti per la prima volta al cuore e le dicesti tremando: “Per me, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia stare con te”. Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente.
Penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull’onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto in te e in lei.
Ma ora Giuseppe, cambiamo discorso! Sta arrivando una donna dal forno. Ecco, ti ha portato del pane, e la bottega si è subito riempita di fragranza. Si direbbe che il pane, più che per nutrire, è nato per essere condiviso: con gli amici, con i poveri, con i pellegrini, con gli ospiti di passaggio!
E’ proprio vero, Giuseppe. Il pane è il sacramento più giusto del tuo vincolo con Maria. Lei morde ogni giorno quello di frumento, procuratole da te col sudore della fronte. Tu mordi il pane del tuo destino che l’ha resa Madre del Figlio di Dio.
E’ per questo che per noi, o falegname di Nazareth, tu sei provocatore di condivisioni generose e assurde, appassionate e temerarie, al centro della sapienza e al limite della follia. Insegnaci, allora, a condividere il pane con i fratelli poveri, in questo nostro mondo, dove purtroppo muoiono ancora più di cinquanta milioni di persone per fame.
Eppure il pane da segno di comunione, si è trasformato in simbolo della scomunica, ed è divenuto il discrimine sul cui filo passa la logica della guerra: viene accaparrato dagli ingordi, non condiviso dai poveri, ammuffisce nelle credenze degli avidi, non si distribuisce sulle bocche di tutti! Sovrabbonda nei bidoni della spazzatura d’Europa, ma è sparito sulle mense desolate dell’Eritrea. Trabocca senza pudore negli opulenti cenoni del Nord, ma è sogno proibito per tutti i Sud della Terra!
Hai sentito mai dire, Giuseppe, che se i ghiacciai eterni dell’Ermon, si sciogliessero d’incanto, le acque sprofonderebbero a valle con poderose tracimazioni, il lago di Tiberiade diventerebbe un mare, il giordano strariperebbe, rompendo gli argini, e l’arsura dell’intera Palestina, verrebbe per sempre placata!
E allora! Visto che presso l’Altissimo, ce ne sono poco di santi così referenziati come te, perché non provochi un fenomeno simile, scongelando le ricchezze dalle mani di pochi e travolgendo la terra in un cataclisma di pane. E se questo ti sembra un miracolo troppo grosso per i tuoi mezzi, perché almeno non persuadi la Chiesa del Duemila a farsi carico con più fiducia della sorte degli ultimi, non solo spartendo le sue ricchezze con i poveri, ma soprattutto condividendo la miseria degli esclusi.
Oggi più che mai vogliamo sperimentarti così, quale Protector Sancte Ecclesiae, Protettore della chiesa dei derelitti, degli emarginati, dei violentati, dei palestinesi, dei marocchini, dei terzomondiali, degli sfrattati, degli sfruttati, dei prigionieri, e degli inquilini di tutte le più squallide periferie dell’umanità.
Capisco che se non mi rispondi non è solo perché tu sei l’uomo del silenzio, ma anche perché la fornaia si è attardata nella tua bottega. Poi si è curvata, ha steso il mantello per terra e l’ha riempito di trucioli e di segatura, di ritagli e di assicelle. Ogni sera, così, lei fa il carico per accendere il forno e a te rimane il pavimento pulito e un pane di granturco per la cena.
Silenzio Giuseppe, un carro si è fermato alla tua porta. Entra un uomo, molto stanco, e poggia sul bancone un piccolo otre di vino, e dice: “Ti ho portato un po’ di vino. è di quello buono. Bevilo Giuseppe, alla mia salute con la tua sposa. So che aspettate un figlio”. Beh, stasera il Signore vuole mostrarsi particolarmente generoso anche con me, perché mi ha messo sotto gli occhi un altro simbolo, quello della gratuità e della festa. Dopo il pane della fornaia, ecco il vino del carrettiere, il vino che rallegra il cuore dell’uomo. Ci vuole infatti un bel coraggio a dire che il vino è segno di gratuità e di festa, quando per noi è divenuto l’emblema drammatico dell’evasione e della fuga, che accomuna i tossici agli alcolisti, gli ultras ai barboni! Ma perché mai il vino si è pervertito in idolo fascinoso per chi getta le armi e rinuncia ad un’esistenza troppo faticosa da vivere? Il motivo c’è: abbiamo smarrito l’ebbrezza della gratuità e c’è rimasta solo l’ebbrezza dell’alcool! Sicché in un mondo regolato dai petroldollari, angosciato dai crolli di Wall Street, che si infischia dei debiti dei popoli in via di sviluppo, che è sordo alle esigenze di un nuovo ordine economico internazionale.
In un mondo del genere, come può esplodere la gioia? Ci si lascia vivere! Ci si appiattisce in un’esistenza che scorre senza più stupore, senza spessore, come le immagini sul video. E noi compiamo le nostre scelte come se spingessimo i tasti di un telecomando. Crediamo di scegliere e invece siamo scelti! Si muore per anemia cronica di gioia, si moltiplicano le feste, ma manca la Festa!
Se non ti dispiace, versa un poco di quel vino, in quel boccale di creta, me lo voglio portare come ricordo di quest’incontro, e anche di quell’acqua che sgocciola ancora sul pavimento, dammene un poco! Non è acqua inquinata quella! Le piogge acide, le discariche industriali e gli additivi chimici l’hanno ancora preservata, lasciandola come simbolo di purezza e di armonia ecologica. Dammi della tua acqua, la quale è molto utile, et humile, et pretiosa et casta.
E visto che ci siamo, dammi anche di quel pane! No, non tutto! Spezzamelo Giuseppe! Condividilo con me! Un giorno anche tuo figlio lo spezzerà prima di morire, e la speranza traboccherà sulla terra. L’acqua, il vino, il pane: la trilogia di un’esistenza ridotta all’essenziale! Li porterò con me, nella bisaccia del pellegrino. Mi serviranno tanto, sulla mia strada di viandante un po’ stanco. E serviranno tanto anche alla mia Chiesa, anzi quando mi chiederà qualcosa, spero di non aver null’altro da darle che questo: né denaro, né prestigio, né potere, ma solo acqua, vino e pane!
Si è fatto tardi, Giuseppe. Nella piazza non c’è più nessuno. I grilli cantano sul cedro del tuo giardino. Nelle case, le famiglie recitano lo “Shemà Israel”. E tra poco Nazareth si addormenterà sotto la luna. Di là, vicino al fuoco, la cena è pronta. Cena di povera gente. L’acqua della fonte, il pane di giornata, e il vino di Engaddi. E poi c’è Maria che ti aspetta. Ti prego: quando entri da lei, sfiorala con un bacio. Falle una carezza pure per me. E dille che anch’io le voglio bene. Da morire! Buona notte, Giuseppe!

Tu sai meglio di me che sto invecchiando


Preghiera di un anziano
Signore , Tu sai meglio di me che sto invecchiando
ed un giorno sarò vecchio.
Fa che io non mi senta in dovere
di dire qualche cosa su ogni argomento
e in qualsiasi occasione.
Evitami la tentazione di intromettermi negli affari altrui.
Fa che il mio parlare non diventi penoso
e che il mio aiuto non diventi imposizione.
E' un peccato forse non mettere a frutto
il mio bagaglio di esperienze
e Tu sai d'altronde come io voglia conservare alcuni amici.
Fa in modo che io eviti nei discorsi
elencazioni di dettagli senza fine,
dammi la capacità di arrivare subito all'essenziale.
Sigilla le mie labbra sulle mie sofferenze e sulle mie fatiche.
Queste stanno aumentando
e il desiderio di manifestarle
diventa sempre più forte con il passare degli anni.
Non oso chiederTi la grazia sufficiente per accettare serenamente
il successo delle altrui pene,
ma aiutami almeno a sopportare le mie con pazienza.
Non oso chiederTi una migliore memoria,
ma dammi una crescente umiltà ed una minore presunzione
quando i miei ricordi sembrano contrastare con quelli degli altri.
Insegnami la grande lezione
secondo la quale anch'io possa ritenermi in errore.
Mantienimi ragionevolmente dolce:
un vecchio arcigno è il supremo capolavoro del diavolo.
D'altra parte non desidero essere un santo:
è molto arduo vivere insieme.
Dammi la capacità di vedere
belle cose in posti inusitati,
e talenti in ogni persona.
E inoltre Signore,
dammi la forza di poterglielo dire
[E' la preghiera di un monaco del XVII secolo
 Rinvenuta in un monastero di Gloucester (Gran Bretagna)]

domenica 18 marzo 2012

il vostro agire non abbia nulla di impreciso,


 un brano del Testamento di Pavel Florenskij tratto da Non dimenticatemi:
"Amati figlioletti miei [...] eccovi una cosa che non posso non scrivere: abituatevi, educate voi stessi a fare tutto ciò che fate perfettamente, con cure e precisione; che il vostro agire non abbia nulla di impreciso, non fate niente senza provarvi gusto, in modo grossolano... Chi agisce con approssimazione, si abitua anche a parlare con approssimazione e il parlare grossolano, impreciso e sciatto coinvolge in questa indeterminatezza anche il pensiero.
Cari figlioletti miei, non permettete a voi stessi di pensare in maniera grossolana. Il pensiero è un dono di Dio ed esige che si abbia cura di sé. Essere precisi e chiari nei propri pensieri è il pegno della libertà spirituale e della gioia del pensiero" (pp. 24-25).