sabato 30 marzo 2013

Un mondo di richieste sempre crescenti non è semplicemente un male, lo si può soltanto definire un inferno. L’uomo ha conquistato il potere frustrante di chiedere qualunque cosa perché non riesce a immaginare niente che non possa essergli fornito da un’istituzione.

Lo stato d'animo dell’abitante della città moderna figura nella tradizione mitica solo nelle immagini dell’inferno. Sisifo, che per qualche tempo era riuscito a mettere in catene Thanatos (la morte), deve far rotolare un pesante masso su per una collina sino in cima all’Ade, e ogni volta che sta per arrivare alla meta il masso gli sfugge di mano. Tantalo che, invitato a pranzo dagli dèi, rubò loro in quella occasione la ricetta segreta dell’ambrosia che guariva ogni male e conferiva l’immortalità, soffre in eterno la fame e la sete, immerso in un fiume le cui acque si ritraggono dalle sue labbra e sotto i rami di un albero i cui frutti gli sfuggono. Un mondo di richieste sempre crescenti non è semplicemente un male, lo si può soltanto definire un inferno. L’uomo ha conquistato il potere frustrante di chiedere qualunque cosa perché non riesce a immaginare niente che non possa essergli fornito da un’istituzione. Circondato da strumenti onnipotenti, è ridotto a essere uno strumento dei propri strumenti. Ogni istituzione nata per esorcizzare uno dei mali primitivi è diventata per lui uno scrigno a perfetta tenuta e a chiusura automatica. L’uomo è intrappolato nelle scatole da lui costruite per racchiudervi i mali che Pandora si lasciò scappare L’offuscamento della realtà ad opera dello smog prodotto dai nostri strumenti ci ha avviluppati tutti. Ci troviamo all’improvviso nel buio di una trappola fabbricata da noi stessi. (Ivan Illich, Descolarizzare la società).

venerdì 29 marzo 2013

Non c’è nulla di più facile che accusare Dio nel profondo del nostro cuore quando soffriamo per lungo tempo o brancoliamo nell’oscurità, e ripudiare l’ideale che ci eravamo proposti.

La mente dell’uomo giudica sempre le cose in base alla loro apparenza, poiché tale è l’abitudine inveterata della ragione intellettuale nella quale l’uomo ripone una fiducia illimitata. Non c’è nulla di più facile che accusare Dio nel profondo del nostro cuore quando soffriamo per lungo tempo o brancoliamo nell’oscurità, e ripudiare l’ideale che ci eravamo proposti. [...] In quei momenti, talvolta lunghi e frequenti, si dimentica l’esperienza più alta e ci si concentra sulla propria amarezza. È possibile cadere per sempre in questi oscuri passaggi e sviarsi dal lavoro divino. Ma se si avanza lungamente e senza debolezze, la fede del cuore resta intatta, anche sotto la pressione più avversa e feroce; anche se la fede si nasconde o sembra sepolta, risorgerà alla prima occasione. Qualcosa di più alto del cuore e dell’intelletto la sostiene, nonostante i passi falsi ed attraverso gli insuccessi più prolungati. [...] È quindi necessario fin dal principio comprendere e accettare l’ardua difficoltà del cammino e avvertire il bisogno di una fede che sembra cieca per l’intelletto, ma che è più saggia della nostra intelligenza ragionatrice. Questa fede proviene dall’alto, come l’ombra luminosa gettata da una chiarezza segreta che supera l’intelletto e le sue possibilità; è il centro di una conoscenza nascosta, non perduta in balìa delle apparenze immediate. Se la nostra fede persevera, si giustificherà nelle opere, ed alla fine sarà innalzata e trasfigurata nella rivelazione della conoscenza divina. (Srî Aurobindo, Lo Yoga delle opere divine).

giovedì 28 marzo 2013

Si tratta di prender coscienza, e di non più accettare. Non accontentarsi più di girare attorno a se stessi - e a quelli che sono dei suoi – nell’attesa della sua piccola porzione di Paradiso.

Ora, voi mi avete capito. Non si tratta di asciugare con gesto vago una lacrima: è troppo presto fatto. Neppure di avere un istante di pietà: è troppo facile. Si tratta di prender coscienza, e di non più accettare. Non accontentarsi più di girare attorno a se stessi - e a quelli che sono dei suoi – nell’attesa della sua piccola porzione di Paradiso. Rifiutarsi di concedersi una piccola siesta ben pensante, quando tutto urla e si dispera attorno a noi. Non più accettare questo modo di vivere che è una rinuncia perpetua dell'uomo. Non più accettare un Cristianesimo negativo che i piccoli borghesi dell’Eternità asfissiano in un labirinto di formule e di interdetti. Non più accettare di essere felici da soli. Davanti alla miseria, all’ingiustizia, alla viltà, non rinunciate mai, non venite a compromessi, non battete mai in ritirata. Lottate, combattete. Partite all’assalto! Impedite ai responsabili di dormire! Voi che siete il domani, pretendete la felicità per gli altri, costruite la felicità degli altri. Il mondo ha fame di grano e di tenerezza. Lavoriamo. (Raoul Follereau, Il mondo ha fame di grano e di tenerezza).

mercoledì 27 marzo 2013

La misericordia, la si semina sulla terra, ma è in cielo che germoglia. La si pianta nel povero, ma è in Dio che la si moltiplica.

Quanto dai al bisognoso, è un guadagno anche per te stesso. Quanto riduce il tuo capitale, accresce in realtà il tuo profitto. Il pane che dai ai poveri, è esso ad alimentarti. Perché chi prova compassione per il bisognoso, coltiva se stesso con i frutti della propria umanità. La misericordia, la si semina sulla terra, ma è in cielo che germoglia. La si pianta nel povero, ma è in Dio che la si moltiplica. [...] Perché tu, al povero, non dai del tuo, ma semplicemente restituisci del suo. Perché ciò che è comune ed è stato creato per l’uso da parte di tutti, ebbene, di questo, ora tu solo ne stai usando. La terra è di tutti, non soltanto dei ricchi. Ma sono molto più numerosi quelli che non ne godono di quelli che ne sfruttano. Quando tu aiuti, dunque, non dai gratuitamente quel che non sei tenuto a dare, ma ti limiti a pagare un debito [0747C]. Voi, viceversa, denudate gli uomini e rivestite le vostre pareti. Il povero nudo geme alla tua porta, e tu non ti degni di guardarlo in faccia, preoccupato come sei solamente dei marmi con cui ti appresti a ricoprire i tuoi pavimenti. Il povero ti domanda il pane e non lo ottiene, mentre i tuoi cavalli rodono l'oro del freno sotto i loro denti. Che severo giudizio stai preparando per te stesso, o ricco! Il popolo ha fame e tu chiudi i tuoi granai. È povero sul serio colui che ha i mezzi per liberare tante vite dalla morte e non lo fa! Le pietre del tuo anello avrebbero potuto salvare le vite di un intero popolo. [0748D]. È il proprietario che deve essere signore della proprietà, non la proprietà signora del proprietario! Ma chiunque usa del patrimonio di cui dispone a proprio arbitrio, e non sa dare con larghezza né ripartire con i poveri, costui è servo dei propri averi, anziché signore di essi. [0751D]. (Ambrogio di Milano, De Nabuthe Jezraelita Liber Unus).

martedì 26 marzo 2013

Non è tempo di rispettare un po’ la marcia dello Spirito, senza scambiarci ogni volta per Lui?

Perché contrapporre le diverse religioni invece di ricercare ciò che esse hanno in comune, malgrado le immense differenze? Noi cattolici abbiamo troppo il complesso del “completo”. Non ci manca nulla. Dio ci ha detto tutto. Penso ad un’amica di New York. Da un cattolicesimo mai vissuto e mai compreso, è passata all’islam. Da allora ella irraggia Dio, fa venire voglia di Dio. Avrei il coraggio di dirle che le sta mancando qualcosa? Non è tempo di rispettare un po’ la marcia dello Spirito, senza scambiarci ogni volta per Lui? “Se non me ne vado, disse Gesù, lo Spirito non verrà” (Gv 16, 7). Lasciamolo dunque venire. Tutti noi abbiamo bisogno di purificarci gli uni gli altri senza rinnegare nulla di ciò che siamo. Dicono che, nell’anno 2000, i mestieri saranno totalmente diversi da quelli di oggi e tuttavia saranno pur sempre dei mestieri da uomini. Anche la Chiesa sarà certo differente ed essa sarà sempre la Chiesa. La sua trasformazione non le verrà forse dall’incontro e dalla mescolanza sempre più intensa di uomini, razze, religioni, cosicché, invece che pensare a distruggersi vicendevolmente, si diano reciprocamente vita, sotto l’influenza dello Spirito? Mons. Guy Riobé chiudeva così il suo famoso articolo, pubblicato ne Le Monde del 16 febbraio 1977: “Nella moltitudine di uomini e donne, cristiani o no, vi sono esseri che cercano, che vogliono un’umanità più umana e che si presta a Dio. Possano essi trovare sul loro cammino una Chiesa spoglia di potere, povera con il suo Dio povero, ritornata all’essenziale, ricca del solo Evangelo”. Questa Chiesa, come non potrebbe incontrarsi con le altre religioni? (François de L’Espinay, La religion des orixas: un autre parole du Dieu unique?)

lunedì 25 marzo 2013

la nostra confessione ha un grande significato perché si è radicata in profondo silenzio

Se riempiamo la vita di silenzio allora viviamo di speranza e Cristo vive in noi e dà molta consistenza alle nostre virtù. Allora, quando viene il momento, lo confessiamo apertamente davanti agli uomini e la nostra confessione ha un grande significato perché si è radicata in profondo silenzio. Essa risveglia, nelle anime di quelli che ci ascoltano, il silenzio di Cristo così che anche loro diventano silenziosi, e incominciano a stupirsi e ad ascoltare. Perché hanno incominciato a scoprire il loro vero essere. Se la nostra vita si spande al di fuori in parole inutili, non udremo mai nulla nelle profondità del nostro cuore, dove Cristo vive e parla in silenzio. Non saremo mai nulla e alla fine quando verrà per noi il tempo di dichiarare chi e che cosa siamo, saremo trovati senza parole proprio al momento della decisione cruciale: perché avremo detto tutto e ci saremo esauriti in discorsi prima di avere qualche cosa da dire. (Thomas Merton, Silenzio).
"Dialoghi con il Silenzio" invita il lettore a entrare nel sacro regno della contemplazione dove ascoltiamo in silenzio e cerchiamo di cogliere la presenza divina nelle nostre vite, dove il vuoto diventa l'occasione per l'incontro e l'interscambio tra il mondo esteriore e quello interiore, dove l'oscurità si trasforma in luce: il luogo in cui si rivela la voce di Dio.

domenica 24 marzo 2013

un anniversario offre un pretesto o un motivo felice per assestare un colpo culturale a un certo luogo della storia mondiale, e probabilmente un simile colpo non passa senza lasciare una traccia

Ho pensato più volte che gli attuali festeggiamenti degli anniversari di grandi uomini devono esercitare un’influenza culturale assai benefica, in quanto costringono la gente a imparare e conoscere almeno un po’ alcuni nomi, di cui, probabilmente, la maggior parte di essi non sospettava neanche l’esistenza. Certamente sarebbe bene che tali nomi fossero noti a tutti anche senza anniversari. Ma un anniversario offre un pretesto o un motivo felice per assestare un colpo culturale a un certo luogo della storia mondiale, e probabilmente un simile colpo non passa senza lasciare una traccia. Come vedi, cara mammina, resto fermo nella mia convinzione che non ci sia cultura laddove non esiste il ricordo del passato, la gratitudine verso il passato e la salvaguardia dei valori; resto fermo, cioè, nel concepire l’umanità come un insieme unico, non solo nello spazio, ma anche nel tempo. La cultura viva combina in sé tendenze che si oppongono e si sostengono: conservare ciò che è vecchio e creare ciò che è nuovo, il contatto con l’umanità e una grande flessibilità del proprio approccio alla vita. E solo in presenza di entrambe queste tendenze è possibile la percezione del nuovo e la benevolenza verso tutto ciò che la merita, sullo sfondo della cultura mondiale e non dal punto di vista di una comprensione casuale, provinciale e limitata. (Pavel Florensij, Non dimenticatemi).