L’ANGELO DELLA PASSIONE
L’angelo della passione sembra essere in contrasto con l’angelo della calma.
Noi, però, abbiamo bisogno di molti angeli per far fiorire la vita dentro di noi.
L’angelo della passione vuole invitarci a vivere con tutta la forza del nostro cuore
e a non condurre un’esistenza solamente- per così dire- a fuoco lento.
Quando una persona non è più capace di avere una grande passione,
la sua vita diventa noiosa e insulsa.
Perde gusto.
Non era questo che voleva Gesù, il quale ci ha esortati ad essere sale della terra,
a condire questo mondo con la nostra vitalità.
Le passioni sono le forze motrici naturali dell’uomo e
lo vorrebbero spronare alla vita e, alla fine, portare fino a Dio.
L’angelo della passione deve insegnarci
l’arte di rapportarci con queste forze motrici
in modo da non esserne dominati,
ma da poterle impiegare per quella che è la vera e propria meta della nostra vita.
Non dobbiamo diventare persone dominate e mosse dagli istinti,
persone che semplicemente si lasciano spingere avanti,
ma persone che muovono le passioni e le utilizzano per modellare la vita nella sua molteplicità.
Chi è in grado di avventurarsi passionalmente in qualcosa,
può anche combattere passionalmente per la vita e
anche la sua spiritualità sarà appassionata.
Ce lo insegna un racconto cassidico:
” Un chassista un giorno si lamentava col rabbi Wolf perché
alcune persone avevano trasformato la notte in giorno giocando a carte.
"Questa è una cosa buona", disse il maestro. Come tutti anche loro vogliono servire Dio, ma non sanno come fare. Adesso però imparano a vegliare e a resistere nel fare qualcosa. Una volta che si saranno perfezionati in questo, avranno bisogno solamente di convertirsi e allora saranno dei ministri di Dio!’ “.
I primi monaci hanno riflettuto molto sulle passioni.
Evagrio Pontico (morto nel 339) enumera nove passioni con le quali deve combattere il monaco.
Per lui le passioni sono forze positive.
Non si tratta di reciderle, ma di integrarle nella propria vita.
Le passioni devono servire a noi,
noi non dobbiamo servire alle passioni.
L’apatheia, che viene indicata come la meta della lotta con le passioni,
non designa una stato privo di passioni,
ma la libertà rispetto a un patologico incatenamento alle passioni,
designa l’integrazione delle passioni in tutto ciò che faccio e penso,
uno stato in cui esse, invece di possedermi,
sono a mia disposizione come forza, come virtus, come virtù che è in grado di rendermi vivo.
L'impegno ci spinge più in là: verso qualcuno che resti anche quando noi passiamo; verso qualcuno che ci prende in mano il cuore, se il cuore non regge al salire. (Don Primo Mazzolari) fissare a memoria le parole di Paolo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1).
sabato 24 agosto 2013
venerdì 23 agosto 2013
ti vuole prima di tutto ammaestrare nell’arte di riuscire a vivere armoniosamente con te stesso, di riuscire a vivere in accordo ed essere in sintonia con te stesso.
L’ANGELO DELL’ARMONIA
Armonizzare:
ecco una parola che è un po’ un insulto per la psicologia.
Le persone che non possono reggere un conflitto,
che non tollerano le diversità di opinioni,
vogliono occultare e armonizzare tutte le questioni controverse.
Ottengono una artificiosa armonia che non è di grande aiuto:
Infatti, i problemi continuano a suppurare e riesplodono.
Chi armonizza in questo modo ha paura della verità.
Non riesce a tollerare che si litighi.
Piuttosto, la lite per lui è tanto più negativa
perché nella sua infanzia ha visto abbastanza spesso i genitori litigare tra loro.
Il litigio dei genitori ha scatenato in lui la paura di essere lasciato solo,
di perdere la protezione dei genitori.
Così ogni lite ora mette in moto in lui la paura
che gli venga tolto da sotto i piedi il terreno su cui si regge.
Perciò armonizza, cerca di spiegare
che non c’è divergenza, che tutti hanno ragione.
Armonizza in maniera ancora peggiore colui che lancia appelli morali
dicendo che ci si deve tollerare e che noi, in quanto cristiani,
dovremmo comunque amare tutti.
L’angelo dell’armonia non vuole insegnarti ad armonizzare,
ma ti vuole prima di tutto ammaestrare nell’arte di riuscire a vivere armoniosamente
con te stesso, di riuscire a vivere in accordo ed essere in sintonia con te stesso.
Il termine greco harmòzein vuol dire congiungere.
Raggiungerai un’armonia interiore se congiungerai tutti gli opposti che sono in te.
Osserva i tuoi contrasti.
Accettali.
Così non ti lasceranno più.
Li metti in accodo tra loro.
Lascia che ogni parte di te abbia il suo suono.
Così tutte le parti possono suonare insieme.
Così nasce armonia dentro di te.
Sei in sintonia con tutto quello che è in te.
Non devi reprimere nulla.
Non devi escludere nulla di questa armonia.
Tutto in te può avere un proprio suono.
Se, invece vuoi reprimere alcune parti,
per esempio la tua rabbia o la tua paura,
queste creano subito dissonanze nella tua anima.
Allora non può esserci armonia vera.
Chi è in sintonia con se stesso, può creare armonia anche attorno a sè.
Non si tratta, però, di un’armonia artificiosa che nasce dall’armonizzazione,
ma dalla congiunzione di tutte le opinioni e di tutte le controversie
che le persone sostengono da punti di vista diversi.
Nulla allora viene occultato.
I punti di vista differenti sono presi in considerazione
e formulati in maniera sempre più chiara.
Ogni opinione è apprezzata, non viene subito scartata.
Allora ciascuno può manifestare il proprio punto di vista.
Si discute assieme apertamente.
I problemi vengono esaminati a fondo finchè tutto si compone,
finchè tutti accettano una soluzione con cui possono vivere,
che non distrugge la loro personale sintonia.
Allora non si armonizza in maniera artificiosa,
ma si trova una strada su cui si riesce a proseguire il cammino
malgrado i controversi punti di vista.
Le persone armoniose creeranno anche nel loro ambiente
un clima di lavoro in cui tutti lavorano volentieri.
Dopo le dissonanze nasce di nuovo un suono d’insieme.
Le persone che sono in sintonia con se stesse
non devono ricorrere a intrighi per sobillare gli altri tra loro.
Producono attorno a sé un clima di chiarezza e di accordo.
Allora ciascuno si sa stimato.
Ciascuno può suonare insieme nella grande sinfonia dell’azienda o della comunità.
Questi angeli dell’armonia sono una benedizione per ogni comunità umana.
Ti auguro, perciò, che l’angelo dell’armonia riesca a fare di te un angelo di armonia per altri,
così che essi trovino il coraggio di emettere il loro personalissimo suono.
Armonizzare:
ecco una parola che è un po’ un insulto per la psicologia.
Le persone che non possono reggere un conflitto,
che non tollerano le diversità di opinioni,
vogliono occultare e armonizzare tutte le questioni controverse.
Ottengono una artificiosa armonia che non è di grande aiuto:
Infatti, i problemi continuano a suppurare e riesplodono.
Chi armonizza in questo modo ha paura della verità.
Non riesce a tollerare che si litighi.
Piuttosto, la lite per lui è tanto più negativa
perché nella sua infanzia ha visto abbastanza spesso i genitori litigare tra loro.
Il litigio dei genitori ha scatenato in lui la paura di essere lasciato solo,
di perdere la protezione dei genitori.
Così ogni lite ora mette in moto in lui la paura
che gli venga tolto da sotto i piedi il terreno su cui si regge.
Perciò armonizza, cerca di spiegare
che non c’è divergenza, che tutti hanno ragione.
Armonizza in maniera ancora peggiore colui che lancia appelli morali
dicendo che ci si deve tollerare e che noi, in quanto cristiani,
dovremmo comunque amare tutti.
L’angelo dell’armonia non vuole insegnarti ad armonizzare,
ma ti vuole prima di tutto ammaestrare nell’arte di riuscire a vivere armoniosamente
con te stesso, di riuscire a vivere in accordo ed essere in sintonia con te stesso.
Il termine greco harmòzein vuol dire congiungere.
Raggiungerai un’armonia interiore se congiungerai tutti gli opposti che sono in te.
Osserva i tuoi contrasti.
Accettali.
Così non ti lasceranno più.
Li metti in accodo tra loro.
Lascia che ogni parte di te abbia il suo suono.
Così tutte le parti possono suonare insieme.
Così nasce armonia dentro di te.
Sei in sintonia con tutto quello che è in te.
Non devi reprimere nulla.
Non devi escludere nulla di questa armonia.
Tutto in te può avere un proprio suono.
Se, invece vuoi reprimere alcune parti,
per esempio la tua rabbia o la tua paura,
queste creano subito dissonanze nella tua anima.
Allora non può esserci armonia vera.
Chi è in sintonia con se stesso, può creare armonia anche attorno a sè.
Non si tratta, però, di un’armonia artificiosa che nasce dall’armonizzazione,
ma dalla congiunzione di tutte le opinioni e di tutte le controversie
che le persone sostengono da punti di vista diversi.
Nulla allora viene occultato.
I punti di vista differenti sono presi in considerazione
e formulati in maniera sempre più chiara.
Ogni opinione è apprezzata, non viene subito scartata.
Allora ciascuno può manifestare il proprio punto di vista.
Si discute assieme apertamente.
I problemi vengono esaminati a fondo finchè tutto si compone,
finchè tutti accettano una soluzione con cui possono vivere,
che non distrugge la loro personale sintonia.
Allora non si armonizza in maniera artificiosa,
ma si trova una strada su cui si riesce a proseguire il cammino
malgrado i controversi punti di vista.
Le persone armoniose creeranno anche nel loro ambiente
un clima di lavoro in cui tutti lavorano volentieri.
Dopo le dissonanze nasce di nuovo un suono d’insieme.
Le persone che sono in sintonia con se stesse
non devono ricorrere a intrighi per sobillare gli altri tra loro.
Producono attorno a sé un clima di chiarezza e di accordo.
Allora ciascuno si sa stimato.
Ciascuno può suonare insieme nella grande sinfonia dell’azienda o della comunità.
Questi angeli dell’armonia sono una benedizione per ogni comunità umana.
Ti auguro, perciò, che l’angelo dell’armonia riesca a fare di te un angelo di armonia per altri,
così che essi trovino il coraggio di emettere il loro personalissimo suono.
giovedì 22 agosto 2013
Siamo stati tutti e tre d’accordo nell’affermare che non c’è piacere senza rinuncia.
L'angelo della rinuncia
L’angelo della rinuncia ha vita difficile oggi. Infatti, molti collegano alla parola rinuncia un’ascesi tenebrosa. In effetti Dio vuole che noi viviamo la vita nella pienezza.
In una trasmissione televisiva intitolata:” Rinunciare, godere, oppure l’uno e l’altro?”: dopo aver sentito uno studioso del piacere e una studiosa della sessualità, sono state poste delle domande anche a me, in quanto monaco, sul problema del piacere e della rinuncia.
Siamo stati tutti e tre d’accordo nell’affermare che non c’è piacere senza rinuncia.
Chi vuole soltanto godere non ce la fa.
Posso godermi una o due fette di torta in piena tranquillità,
ma alla quarta fetta, alla più lunga, non c’è più alcun piacere,
è soltanto un rimpinzarsi.
Oggi molte persone sono diventate incapaci di godere,
perché non sono più capaci di rinunciare.
In passato invece era il contrario.
In passato alcuni cristiani si sono resi incapaci di godere
per colpa di una condotta troppo ascetica.
Per loro il godere era già qualcosa di sospetto questa visione era tanto unilaterale
quanto quella odierna in cui si deve avere tutto.
L’avido diventa incapace di godere.
Ti auguro che l’angelo della rinuncia ti conduca alla libertà interiore,
che ti renda capace di godere realmente ciò che vivi e sperimenti,
che ti aiuti ad abbandonarti a quello che fai,
a provare con tutti i sensi ciò che mangi, ciò che bevi.
Ti accorgerai che
l’angelo della rinuncia
è al tempo stesso
un angelo della gioia e del piacere,
un angelo che ti farà bene.
Se nella rinuncia deponi la pretesa nei confronti delle cose che ti spettano,
come il mangiare, il bere, il guardare la televisione ecc.,
guadagni te stesso.
Prendi in mano la tua stessa vita.
L’angelo della rinuncia ti introduca nell’arte di vivere
la tua vita, di disporre liberamente di te stesso e
di provar quindi piacere per la tua vita.
Anselm Grun
Siamo stati tutti e tre d’accordo nell’affermare che non c’è piacere senza rinuncia.
Chi vuole soltanto godere non ce la fa.
Posso godermi una o due fette di torta in piena tranquillità,
ma alla quarta fetta, alla più lunga, non c’è più alcun piacere,
è soltanto un rimpinzarsi.
Oggi molte persone sono diventate incapaci di godere,
perché non sono più capaci di rinunciare.
In passato invece era il contrario.
In passato alcuni cristiani si sono resi incapaci di godere
per colpa di una condotta troppo ascetica.
Per loro il godere era già qualcosa di sospetto questa visione era tanto unilaterale
quanto quella odierna in cui si deve avere tutto.
L’avido diventa incapace di godere.
Ti auguro che l’angelo della rinuncia ti conduca alla libertà interiore,
che ti renda capace di godere realmente ciò che vivi e sperimenti,
che ti aiuti ad abbandonarti a quello che fai,
a provare con tutti i sensi ciò che mangi, ciò che bevi.
Ti accorgerai che
l’angelo della rinuncia
è al tempo stesso
un angelo della gioia e del piacere,
un angelo che ti farà bene.
Se nella rinuncia deponi la pretesa nei confronti delle cose che ti spettano,
come il mangiare, il bere, il guardare la televisione ecc.,
guadagni te stesso.
Prendi in mano la tua stessa vita.
L’angelo della rinuncia ti introduca nell’arte di vivere
la tua vita, di disporre liberamente di te stesso e
di provar quindi piacere per la tua vita.
Anselm Grun
mercoledì 21 agosto 2013
molti collegano alla parola rinuncia un’ascesi tenebrosa. In effetti Dio vuole che noi viviamo la vita nella pienezza
Sospendiamo la vita di S. Francesco e ci concentriamo sugli angeli.
L'angelo della rinuncia
L'angelo della rinuncia
L’angelo della rinuncia ha vita difficile oggi. Infatti, molti collegano alla parola rinuncia un’ascesi tenebrosa. In effetti Dio vuole che noi viviamo la vita nella pienezza.
Perché allora la rinuncia?
Perché allora la rinuncia?
Oggi quello che importa è consumare il più possibile,
concedersi il più possibile.
Naturalmente abbiamo esempi a sufficienza di persone
che sono diventate insopportabili per le loro chiassose rinunce,
ma la rinuncia deve assolutamente portare ad un atteggiamento ostile alla vita?
concedersi il più possibile.
Naturalmente abbiamo esempi a sufficienza di persone
che sono diventate insopportabili per le loro chiassose rinunce,
ma la rinuncia deve assolutamente portare ad un atteggiamento ostile alla vita?
Rinunciare propriamente vuol dire deporre la pretesa su una cosa che mi spetta.
L’obiettivo della rinuncia è la libertà interiore.
Chi deve avere tutto ciò che vede, è totalmente dipendente.
Non è libero.
Si lascia determinare dall’esterno.
La rinuncia è espressione di libertà interiore.
Se riesco a rinunciare a qualcosa che mi divertirebbe, sono libero interiormente.
La rinuncia, però, può essere anche una via per esercitare la libertà interiore.
Quando, per esempio, durante la quaresima rinuncio all’alcool e alla carne,
grazie a queste rinunce posso addestrarmi alla libertà.
Posso provare a vedere se mi riesce di rinunciare per sei settimane
alla televisione, all’alcool, al fumo, alla carne, forse anche al caffè.
Se mi riesce, mi sento bene.
Allora ho la sensazione di non essere schiavo delle mie abitudini,
di non dover usare incondizionatamente l’alcool per trovare stimoli.
Questo è un sentimento di libertà interiore.
Questa libertà appartiene alla nostra dignità.
Se ho l’impressione di aver subito bisogno di un caffè quando sono stanco,
ne divento dipendente.
Questo, alla fine, mi irrita.
Mi toglie la mia dignità di persona che può determinarsi da se stessa
L’obiettivo della rinuncia è la libertà interiore.
Chi deve avere tutto ciò che vede, è totalmente dipendente.
Non è libero.
Si lascia determinare dall’esterno.
La rinuncia è espressione di libertà interiore.
Se riesco a rinunciare a qualcosa che mi divertirebbe, sono libero interiormente.
La rinuncia, però, può essere anche una via per esercitare la libertà interiore.
Quando, per esempio, durante la quaresima rinuncio all’alcool e alla carne,
grazie a queste rinunce posso addestrarmi alla libertà.
Posso provare a vedere se mi riesce di rinunciare per sei settimane
alla televisione, all’alcool, al fumo, alla carne, forse anche al caffè.
Se mi riesce, mi sento bene.
Allora ho la sensazione di non essere schiavo delle mie abitudini,
di non dover usare incondizionatamente l’alcool per trovare stimoli.
Questo è un sentimento di libertà interiore.
Questa libertà appartiene alla nostra dignità.
Se ho l’impressione di aver subito bisogno di un caffè quando sono stanco,
ne divento dipendente.
Questo, alla fine, mi irrita.
Mi toglie la mia dignità di persona che può determinarsi da se stessa
Avverto allora che non riesco più a determinare me stesso, ma che piuttosto sono i miei bisogni a determinarmi.
Anselm Grun
Anselm Grun
martedì 20 agosto 2013
Non è lottando che supererai la prova riprese con dolcezza Francesco. - La supererai soltanto pregando. L’uomo che adora Dio riconosce che Lui solo è Onnipotente. Lo riconosce e lo accetta con tutto il suo cuore.
Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Se sapessimo adorare! - cap. 8
- Quel che mi dici non mi stupisce - ribatté Francesco con dolcezza. - Ti sovvieni di quando ti mandai a predicare contro la tua stessa volontà? Volevo farti uscire da te stesso e strapparti a quell’isolamento dove sentivo che tu ti chiudevi.
- Sì, Padre, me ne sovvengo. Ma allora non potevo capire. Mentre adesso tutto si fa chiaro per me - rispose Rufino.
- Il Signore ha avuto pietà di te - soggiunse Francesco. - è così che Egli ha pietà d’ognuno di noi. A suo tempo, quando meno ce l’aspettiamo. È allora che noi sperimentiamo la Sua misericordia. È così che Egli si fa conoscere da noi. Come la pioggia tardiva che soffoca la polvere della strada.
- È vero - osservò Rufino. - Mi sembra di iniziare una nuova vita.
- Ma come ha fatto il Signore ad aprirti gli occhi? - gli chiese Francesco.
- Fu il Giovedì Santo, durante il pasto comune - rispose Rufino - che un frate evocò a caso una delle tue massime: «Se una madre nutre ed ama suo figlio secondo la carne, a più forte ragione noi dobbiamo amare e nutrire i nostri fratelli secondo lo spirito». Te lo avevo sentito dire spesso, ma non ci avevo prestato attenzione, e non avevo, in verità, capito bene. Questa volta le tue parole presero un senso per me ed io ne rimasi colpito. Poi, tornato che fui nella mia cella, ne feci l’oggetto di una lunga meditazione. - «in una famiglia senza domestici, pensai, dove le cose si svolgono naturalmente, è la madre che fa da mangiare, che serve a tavola, che accudisce ai lavori domestici e che viene disturbata ogni momento. Essa trova normale tutto questo. Essa non se ne considera umiliata, né si sente abbassata a un rango inferiore. Essa non si considera la cameriera della casa. Ama i suoi figli e suo marito, e attinge da questo amore lo slancio ed il coraggio necessari a servirli. Le capita d’essere stanca, talora, anche molto stanca; ma non si ribella mai. Ed io pensavo ad una famiglia modesta, che avevo ben conosciuta, dove la madre, sebbene affaticata dal lavoro, raggiava pace e felicità nel corso delle sue fatiche. - «M’avvidi allora chiaramente di percorrere una strada sbagliata, e di essere condotto da una mentalità non evangelica. Me ne risentii. Io credevo d’aver lasciato il mondo perché avevo cambiato le mie occupazioni. Non avevo pensato a cambiare l’anima mia. Quell’istante fu per me un totale cambiamento di prospettiva. Non attesi più a lungo per mettere a profitto la luce che mi era concessa. Mi affrettai a mettermi al servizio dei miei fratelli. In seguito, la luce non ha fatto che crescere in me, ed anche la pace. Ora mi sento libero e leggero come l’uccello evaso dalla gabbia.
- Tu puoi render grazie a Dio - gli disse Francesco. - Hai fatto una vera e grande esperienza. Ora sai cos’è un frate minore, un povero, secondo il Vangelo: egli è un uomo che, in piena libertà, ha rinunciato all’esercizio del potere e del dominio sugli altri, ispirato non già da un anima di servo, ma dal più nobile spirito che ci sia, quello del Signore. Questa strada è difficile, e sono pochi coloro che la scoprono. È una grazia questa, una grazia somma che il Signore ti ha fatto.
- Non ci sono, ben vedi, che i padroni del mondo che sono informati dalla volontà di potenza e di dominio. Anche i servi lo sono talvolta, se non accettano liberamente la loro condizione. Questa condizione diventa in tal modo un pesante giogo che schiaccia l’uomo e lo prostra e lo rende ribelle. Questo giogo non è certo quello del Signore. Essere povero, secondo il Vangelo, non significa ridursi ad agire come l’ultimo degli schiavi, bensì ad agire animati dallo spirito del Signore. Questo cambia tutto. Dove aleggia lo spirito di Dio, il cuore dell’uomo non può essere amaro. Non c’è posto per il risentimento. Quando vivevo ancora nel mondo, io consideravo come l’ultima delle cose la cura dei lebbrosi. Ma il Signore ebbe pietà di me e mi condusse lui stesso fra i lebbrosi perch’io esercitassi la misericordia verso di loro. Quando ne tornai, ciò che mi era parso in altri tempi amaro mi diventò dolce per l’anima e per il corpo. Lo spirito del Signore, anziché spirito d’amarezza, è spirito di dolcezza e di letizia.
- Questa esperienza che ho fatto mi ha insegnato - riprese Rufino - quanto sia facile illudersi su se stessi, e quanto sia facile scambiare per una ispirazione divina un semplice impulso della natura umana.
- Sì, è facile farsi illusioni - replicò Francesco. Ed è perciò che le illusioni sono tanto frequenti. Eppure, c’è modo di riconoscerle a colpo sicuro.
- Quale? - chiese Rufino. - Il turbamento dell’anima - replicò Francesco. Quando uno specchio d’acqua si appanna, significa che non è puro. La stessa cosa avviene per l’uomo. Un uomo, quando è turbato, dimostra che la sorgente dei suoi atti è corrotta. Quest’uomo si dimostra ispirato da preoccupazioni estranee allo spirito del Signore. Quando un uomo può soddisfare ogni suo desiderio, non può sapere se sia veramente lo spirito di Dio che, lo ispira. È tanto facile confondere i propri vizi con le proprie virtù, e confonder la vita stessa coi fini nobili e disinteressati che le si propongono. E tutto ciò ha luogo con perfetta inconsapevolezza. Ma se all’uomo che mente a se stesso capita di essere contraddetto o di essere contrariato, allora la maschera gli cade dal volto. Egli ne rimane conturbato e irritato. Dietro l’uomo «spirituale» che non era che uno schermo d’uomo, appare l’uomo «carnale»: l’uomo vivo che si difende con le unghie e coi denti. Questo turbamento e questa aggressività dimostrano che l’uomo è condotto da altre zone più profonde dello spirito stesso del Signore.
La campana dell’eremo prese a suonare. Era l’ora dell’ufficio. Francesco e Rufino si alzarono e si diressero verso l’oratorio. Camminavano sereni come due uomini liberi.
Francesco afferrò d’un tratto Rufino per il braccio e lo fermò.
- Ascolta, fratello; devo dirti qualcosa. Poi tacque, tenendo gli occhi fissi al suolo. Sembrava che esitasse.
Infine, fissando Rufino negli occhi, gli disse con tono grave:
- Con l’aiuto del Signore tu hai superato la tua volontà di sopraffazione e di prestigio personale. Ma a queste crisi molte altre ne seguiranno, che dovrai ancora superare.
- Mi fate paura, Padre - replicò Rufino. - Io non mi sento tagliato per sostenere una simile lotta. -
Non è lottando che supererai la prova riprese con dolcezza Francesco. - La supererai soltanto pregando. L’uomo che adora Dio riconosce che Lui solo è Onnipotente. Lo riconosce e lo accetta con tutto il suo cuore. Egli si compiace che Dio sia Dio. Gli basta che Dio esista. E questa certezza lo rende libero. Capisci?
- Sì, Padre, capisco - replicò Rufino.
I due frati avevano ripreso il cammino, continuando a discorrere. Ora erano giunti a pochi passi dall’Oratorio.
- Se noi sapessimo adorare soggiunse Francesco - nulla potrebbe più turbarci. Se sapessimo pregare, percorreremmo la terra con la tranquilla sicurezza dei grandi fiumi.
lunedì 19 agosto 2013
Cosicché, non agivo che per dovere. Credevo che fosse questa la vita religiosa. Ma in realtà, trattavasi d’un abito mal fatto che mi sforzavo d’indossare senza poterlo portare. Me ne liberavo alla prima occasione. La mia vita, la mia vera vita, era altrove
Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Se sapessimo adorare! - cap. 8
Rufino stette per un istante in silenzio.
Poi sospirò come qualcuno che, avendo troppe cose da dire,
non sa da quale cominciare.
I due frati camminavano tranquilli sotto i pini, non lontano dall’eremo.
Essi procedevano senza far rumore su uno spesso tappeto d’aghi secchi.
L’aria era dolce e colma di un profumo di resina.
- Sediamoci qui - propose Francesco. - Parleremo meglio.
Si sedettero per terra.
Allora Rufino cominciò il suo racconto.
- Quando sono venuto a chiederti di far parte della tua comunità, dodici anni or sono, ero spinto dal desiderio di vivere secondo il Vangelo, come lo vedevo praticato da te. Io ero allora tutto sincerità, e volevo veramente seguire il Vangelo. I primi anni che passai nel sodalizio non furono difficili. Io mi adoperavo con tutto il mio zelo a soddisfare ogni esigenza di questa vita nuova.
- Ma nel profondo del mio essere serbavo, senza accorgermene, una mentalità che non era evangelica.
Tu conosci l’ambiente familiare nel quale sono cresciuto.
Era una famiglia nobile la mia. La mia sensibilità, la mia educazione e tutte le fibre vive del mio essere mi tenevano legato a quel nobile ambiente. Io sentivo e giudicavo secondo quell’ambiente, influenzato dai valori predominanti in esso. Quando venni presso di te e mi conformai al tuo genere di vita tanto umile e povero, pensai d’aver rinunciato per sempre a quei valori e mi convinsi d’essermi perduto per il Signore.
- Era vero, ma solo in superficie. Avevo cambiato genere di vita e di occupazioni. Ed era un gran cambiamento per me. Senonché, nel mio intimo, conservavo, senza rendermene ben conto, una gran parte dell’anima mia, la più importante per giunta. Io conservavo la mia vecchia mentalità, quella del mio ambiente. Io continuavo a giudicare le persone e le cose come venivano giudicate nell’ambito della mia famiglia. Al castello di mio padre erano i domestici e i servi che ricevevano la gente alle porte, che lavoravano in cucina. Divenuto che fui frate minore, considerai del pari che lavorar da portiere, o da cuoco, che questuare o curare i lebbrosi fosse per me un vero e proprio abbassarmi ad una condizione inferiore. Nondimeno, accettai volentieri queste mansioni, appunto per umiliarmi. Ci mettevo, anzi, un punto d’onore a mortificarmi a quel modo. Pensavo che fosse quella l’umiltà evangelica. Ed è in questo spirito ch’io m’ero fatto frate.
- Passarono gli anni. Incapace di predicare, mi son visto ridotto sovente ad altre occupazioni che consideravo inferiori e vili. Mi ci adattavo per un senso di dovere. Mi umiliavo per dovere. E ne ero veramente umiliato.
- Avvenne quel che doveva avvenire. Giunsi a pensare che gli altri frati, quelli adibiti alla predicazione, mi considerassero il loro servo. Questo sentimento si fece più forte, allorché dei frati, più giovani di me e d’ambienti più modesti del mio, entrarono nell’Ordine e si misero a predicare lasciando a me le cure materiali della comunità. Se qualcuno di loro mi faceva una osservazione, o esprimeva un semplice desiderio, io me ne sentivo turbato ed irritato. Non dicevo niente, ma ribollivo in cuor mio. Poi mi calmavo e mi riprendevo. Mi mortificavo sempre più, e sempre più per un senso di dovere.
- Cosicché, non agivo che per dovere. Credevo che fosse questa la vita religiosa. Ma in realtà, trattavasi d’un abito mal fatto che mi sforzavo d’indossare senza poterlo portare. Me ne liberavo alla prima occasione. La mia vita, la mia vera vita, era altrove. Essa era là dove ritrovavo me stesso. Ogni giorno infatti, non avevo che un desiderio: farla finita con quelle mansioni volgari per rifugiarmi nella solitudine. Lì mi sentivo di nuovo padrone di me stesso e tornavo a rivivere. Poi mi riprendeva il senso del dovere e tornavo ad essere il servo dei frati.
- Ma questo regime mi consumava. Non puoi fartene un’idea quanto sia estenuante. Tutto ciò che facevo per un senso di dovere, io lo facevo senza cuore, come un forzato che trascina i suoi ceppi. Perdevo l’appetito e il sonno. Cominciavo la giornata già stanco. Infine, presi in uggia tutti i frati. In ognuno dì essi ravvisavo un padrone e me ne sentivo lo schiavo. Mi sentivo misconosciuto, e a tal pensiero mi ribellavo. Non potevo più sopportare nessuno. Finii per rivoltarmi, in cuor mio, contro tutti quanti. Allora, nella mia ingenuità, mi convinsi che il Signore mi volesse tutto per sé in una completa solitudine. Ti chiesi allora il permesso di ritirarmi in questo eremo. Poi fu appunto qui che scoppiò la crisi terribile che ben conosci. Ecco dove ero arrivato.
Se sapessimo adorare! - cap. 8
Rufino stette per un istante in silenzio.
Poi sospirò come qualcuno che, avendo troppe cose da dire,
non sa da quale cominciare.
I due frati camminavano tranquilli sotto i pini, non lontano dall’eremo.
Essi procedevano senza far rumore su uno spesso tappeto d’aghi secchi.
L’aria era dolce e colma di un profumo di resina.
- Sediamoci qui - propose Francesco. - Parleremo meglio.
Si sedettero per terra.
Allora Rufino cominciò il suo racconto.
- Quando sono venuto a chiederti di far parte della tua comunità, dodici anni or sono, ero spinto dal desiderio di vivere secondo il Vangelo, come lo vedevo praticato da te. Io ero allora tutto sincerità, e volevo veramente seguire il Vangelo. I primi anni che passai nel sodalizio non furono difficili. Io mi adoperavo con tutto il mio zelo a soddisfare ogni esigenza di questa vita nuova.
- Ma nel profondo del mio essere serbavo, senza accorgermene, una mentalità che non era evangelica.
Tu conosci l’ambiente familiare nel quale sono cresciuto.
Era una famiglia nobile la mia. La mia sensibilità, la mia educazione e tutte le fibre vive del mio essere mi tenevano legato a quel nobile ambiente. Io sentivo e giudicavo secondo quell’ambiente, influenzato dai valori predominanti in esso. Quando venni presso di te e mi conformai al tuo genere di vita tanto umile e povero, pensai d’aver rinunciato per sempre a quei valori e mi convinsi d’essermi perduto per il Signore.
- Era vero, ma solo in superficie. Avevo cambiato genere di vita e di occupazioni. Ed era un gran cambiamento per me. Senonché, nel mio intimo, conservavo, senza rendermene ben conto, una gran parte dell’anima mia, la più importante per giunta. Io conservavo la mia vecchia mentalità, quella del mio ambiente. Io continuavo a giudicare le persone e le cose come venivano giudicate nell’ambito della mia famiglia. Al castello di mio padre erano i domestici e i servi che ricevevano la gente alle porte, che lavoravano in cucina. Divenuto che fui frate minore, considerai del pari che lavorar da portiere, o da cuoco, che questuare o curare i lebbrosi fosse per me un vero e proprio abbassarmi ad una condizione inferiore. Nondimeno, accettai volentieri queste mansioni, appunto per umiliarmi. Ci mettevo, anzi, un punto d’onore a mortificarmi a quel modo. Pensavo che fosse quella l’umiltà evangelica. Ed è in questo spirito ch’io m’ero fatto frate.
- Passarono gli anni. Incapace di predicare, mi son visto ridotto sovente ad altre occupazioni che consideravo inferiori e vili. Mi ci adattavo per un senso di dovere. Mi umiliavo per dovere. E ne ero veramente umiliato.
- Avvenne quel che doveva avvenire. Giunsi a pensare che gli altri frati, quelli adibiti alla predicazione, mi considerassero il loro servo. Questo sentimento si fece più forte, allorché dei frati, più giovani di me e d’ambienti più modesti del mio, entrarono nell’Ordine e si misero a predicare lasciando a me le cure materiali della comunità. Se qualcuno di loro mi faceva una osservazione, o esprimeva un semplice desiderio, io me ne sentivo turbato ed irritato. Non dicevo niente, ma ribollivo in cuor mio. Poi mi calmavo e mi riprendevo. Mi mortificavo sempre più, e sempre più per un senso di dovere.
- Cosicché, non agivo che per dovere. Credevo che fosse questa la vita religiosa. Ma in realtà, trattavasi d’un abito mal fatto che mi sforzavo d’indossare senza poterlo portare. Me ne liberavo alla prima occasione. La mia vita, la mia vera vita, era altrove. Essa era là dove ritrovavo me stesso. Ogni giorno infatti, non avevo che un desiderio: farla finita con quelle mansioni volgari per rifugiarmi nella solitudine. Lì mi sentivo di nuovo padrone di me stesso e tornavo a rivivere. Poi mi riprendeva il senso del dovere e tornavo ad essere il servo dei frati.
- Ma questo regime mi consumava. Non puoi fartene un’idea quanto sia estenuante. Tutto ciò che facevo per un senso di dovere, io lo facevo senza cuore, come un forzato che trascina i suoi ceppi. Perdevo l’appetito e il sonno. Cominciavo la giornata già stanco. Infine, presi in uggia tutti i frati. In ognuno dì essi ravvisavo un padrone e me ne sentivo lo schiavo. Mi sentivo misconosciuto, e a tal pensiero mi ribellavo. Non potevo più sopportare nessuno. Finii per rivoltarmi, in cuor mio, contro tutti quanti. Allora, nella mia ingenuità, mi convinsi che il Signore mi volesse tutto per sé in una completa solitudine. Ti chiesi allora il permesso di ritirarmi in questo eremo. Poi fu appunto qui che scoppiò la crisi terribile che ben conosci. Ecco dove ero arrivato.
domenica 18 agosto 2013
Sembrava un uomo del tutto trasformato
Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Se sapessimo adorare! - cap. 8
Si celebrò la Pasqua all’eremo in un clima di gioia.
Frate Rufìno aveva ritrovato la strada della comunità.
Lo si vedeva fiorire come non mai.
Egli cercava tutte le occasioni per rendersi utile.
Ogni mattina era lui che scendeva per primo alla fonte ad attingere la provvista d’acqua giornaliera. Aiutava in cucina e si adoperava negli altri lavori.
Si offerse perfino d’andar a questuare: cosa veramente straordinaria da parte sua.
Sembrava un uomo del tutto trasformato.
L’atmosfera della piccola comunità ne sembrava invasa di più luce ed aria.
Il mercoledì dopo Pasqua frate Rufino prese Francesco in disparte e si mise a parlargli a cuore aperto. - Vengo a trovarti, Padre, come ti avevo promesso. Esco da una brutta crisi. Ora va già molto meglio. Ma mi rendo ben conto d’aver corso il rischio di perdere del tutto il senso della mia vocazione. - Dimmi cos’è successo - gli chiese Francesco.
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