Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Se sapessimo adorare! - cap. 8
Rufino stette per un istante in silenzio.
Poi sospirò come qualcuno che, avendo troppe cose da dire,
non sa da quale cominciare.
I due frati camminavano tranquilli sotto i pini, non lontano dall’eremo.
Essi procedevano senza far rumore su uno spesso tappeto d’aghi secchi.
L’aria era dolce e colma di un profumo di resina.
- Sediamoci qui - propose Francesco. - Parleremo meglio.
Si sedettero per terra.
Allora Rufino cominciò il suo racconto.
- Quando sono venuto a chiederti di far parte della tua comunità, dodici anni or sono, ero spinto dal desiderio di vivere secondo il Vangelo, come lo vedevo praticato da te. Io ero allora tutto sincerità, e volevo veramente seguire il Vangelo. I primi anni che passai nel sodalizio non furono difficili. Io mi adoperavo con tutto il mio zelo a soddisfare ogni esigenza di questa vita nuova.
- Ma nel profondo del mio essere serbavo, senza accorgermene, una mentalità che non era evangelica.
Tu conosci l’ambiente familiare nel quale sono cresciuto.
Era una famiglia nobile la mia. La mia sensibilità, la mia educazione e tutte le fibre vive del mio essere mi tenevano legato a quel nobile ambiente. Io sentivo e giudicavo secondo quell’ambiente, influenzato dai valori predominanti in esso. Quando venni presso di te e mi conformai al tuo genere di vita tanto umile e povero, pensai d’aver rinunciato per sempre a quei valori e mi convinsi d’essermi perduto per il Signore.
- Era vero, ma solo in superficie. Avevo cambiato genere di vita e di occupazioni. Ed era un gran cambiamento per me. Senonché, nel mio intimo, conservavo, senza rendermene ben conto, una gran parte dell’anima mia, la più importante per giunta. Io conservavo la mia vecchia mentalità, quella del mio ambiente. Io continuavo a giudicare le persone e le cose come venivano giudicate nell’ambito della mia famiglia. Al castello di mio padre erano i domestici e i servi che ricevevano la gente alle porte, che lavoravano in cucina. Divenuto che fui frate minore, considerai del pari che lavorar da portiere, o da cuoco, che questuare o curare i lebbrosi fosse per me un vero e proprio abbassarmi ad una condizione inferiore. Nondimeno, accettai volentieri queste mansioni, appunto per umiliarmi. Ci mettevo, anzi, un punto d’onore a mortificarmi a quel modo. Pensavo che fosse quella l’umiltà evangelica. Ed è in questo spirito ch’io m’ero fatto frate.
- Passarono gli anni. Incapace di predicare, mi son visto ridotto sovente ad altre occupazioni che consideravo inferiori e vili. Mi ci adattavo per un senso di dovere. Mi umiliavo per dovere. E ne ero veramente umiliato.
- Avvenne quel che doveva avvenire. Giunsi a pensare che gli altri frati, quelli adibiti alla predicazione, mi considerassero il loro servo. Questo sentimento si fece più forte, allorché dei frati, più giovani di me e d’ambienti più modesti del mio, entrarono nell’Ordine e si misero a predicare lasciando a me le cure materiali della comunità. Se qualcuno di loro mi faceva una osservazione, o esprimeva un semplice desiderio, io me ne sentivo turbato ed irritato. Non dicevo niente, ma ribollivo in cuor mio. Poi mi calmavo e mi riprendevo. Mi mortificavo sempre più, e sempre più per un senso di dovere.
- Cosicché, non agivo che per dovere. Credevo che fosse questa la vita religiosa. Ma in realtà, trattavasi d’un abito mal fatto che mi sforzavo d’indossare senza poterlo portare. Me ne liberavo alla prima occasione. La mia vita, la mia vera vita, era altrove. Essa era là dove ritrovavo me stesso. Ogni giorno infatti, non avevo che un desiderio: farla finita con quelle mansioni volgari per rifugiarmi nella solitudine. Lì mi sentivo di nuovo padrone di me stesso e tornavo a rivivere. Poi mi riprendeva il senso del dovere e tornavo ad essere il servo dei frati.
- Ma questo regime mi consumava. Non puoi fartene un’idea quanto sia estenuante. Tutto ciò che facevo per un senso di dovere, io lo facevo senza cuore, come un forzato che trascina i suoi ceppi. Perdevo l’appetito e il sonno. Cominciavo la giornata già stanco. Infine, presi in uggia tutti i frati. In ognuno dì essi ravvisavo un padrone e me ne sentivo lo schiavo. Mi sentivo misconosciuto, e a tal pensiero mi ribellavo. Non potevo più sopportare nessuno. Finii per rivoltarmi, in cuor mio, contro tutti quanti. Allora, nella mia ingenuità, mi convinsi che il Signore mi volesse tutto per sé in una completa solitudine. Ti chiesi allora il permesso di ritirarmi in questo eremo. Poi fu appunto qui che scoppiò la crisi terribile che ben conosci. Ecco dove ero arrivato.
L'impegno ci spinge più in là: verso qualcuno che resti anche quando noi passiamo; verso qualcuno che ci prende in mano il cuore, se il cuore non regge al salire. (Don Primo Mazzolari) fissare a memoria le parole di Paolo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1).
lunedì 19 agosto 2013
Cosicché, non agivo che per dovere. Credevo che fosse questa la vita religiosa. Ma in realtà, trattavasi d’un abito mal fatto che mi sforzavo d’indossare senza poterlo portare. Me ne liberavo alla prima occasione. La mia vita, la mia vera vita, era altrove
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