Christian Bobin poeta e scrittore intervistato dalla filosofa Marie de Solemne
Il mio Cantico della solitudine (Avvenire, 30 luglio 2012)
M: Preferirebbe parlare della solitudine come di una grazia o di una maledizione?
C: Ancor prima di essere uno stato mentale,
la solitudine è una materia.
Sono le dieci di sera, è buio.
Il cielo non è ancora completamente scuro, c’è silenzio, anche il silenzio è molto materiale:
un piccolo appartamento nel quale vivo da una quindicina d’anni, qualche sigaretta che non riesco a impedirmi di fumare, qualche libro che non riesco a impedirmi di aprire. In fondo, curiosamente, la solitudine si popola molto in fretta.
La solitudine è anzitutto questo: uno stato materiale.
Che nessuno venga dove uno è.
Forse, nemmeno se stesso.
Ma, per rispondere alla sua domanda,
la solitudine è più una grazia che una maledizione.
Nonostante molti la vivano diversamente. Succede alla solitudine come alla follia: ci sono due follie, come ci sono due solitudini.
C’è una follia subita da chi la vive. Questa non è invidiabile né felice. È nera, e basta. Nient’altro che nera, pesante. Così, c’è una solitudine cattiva. Una solitudine nera, pesante. Una solitudine d’abbandono, in cui uno si scopre abbandonato magari da sempre. Questa solitudine non è quella di cui parlo nei miei libri. Non è quella che io abito, e non è in essa che mi piace entrare, anche se, come a chiunque, mi è capitato di conoscerla. È l’altra la solitudine che frequento, ed è di quest’altra
che parlo, quasi da innamorato.