sabato 27 luglio 2013

Tutte quelle formule serbavano per essi il gusto delle cose reali. Non stavano Dio da una parte e la realtà dall’altra. Dio stesso era reale nel cuore delle cose reali.


Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Solo nella notte - cap. 2

I soli libri conosciuti all’eremo erano quelli liturgici, il Messale e il Libro delle ore canoniche. Per tutti i frati ce n’era un solo esemplare.
La parola di Dio, contenuta in quei libri, vi riacquistava tutto il suo significato ed il suo fior di poesia.
Essa non vi appariva né consunta né offuscata dal peso d’altre letture.
Nulla aiuta, infatti, a gustare e a capire la Parola della Salvezza quanto il vivere pericoloso e malcerto.
La minaccia delle intemperie ci fa sentire il valore di un tetto.
Inoltre, l’assenza di ogni appoggio umano e d’ogni sostegno ci fa sentire quanto siano vere le seguenti parole:
«La mia roccia, il mio baluardo sei Tu».
Allora l’uomo può vedere senza paura la sua vita tremare come il fragile stelo di un’orchidea selvaggia sullo spacco di una roccia al di sopra di un precipizio.
Quando, di sera, i frati recitavano, riuniti nel piccolo oratorio, il versetto:
«Proteggici, o Signore, come la pupilla degli occhi Tuoi»,
essi sentivano di dire qualcosa di grande e di forte! 
Tutte quelle formule serbavano per essi il gusto delle cose reali. Non stavano Dio da una parte e la realtà dall’altra. Dio stesso era reale nel cuore delle cose reali.
Francesco aveva risentito spesso il beneficio di questa esistenza solitaria.

Vari giorni erano ormai trascorsi dal suo arrivo all’eremo. 
Ma questa volta il suo cuore non ritrovava più la pace.
Ogni mattina, di buon’ora, Francesco assisteva alla Santa Messa celebrata da frate Leone.
Poi si ritirava nella solitudine e pregava a lungo, in preda a profonde angosce.
Gli pareva allora che Dio si fosse allontanato da lui, e si chiedeva se non avesse, forse, presunto troppo dalle sue deboli forze.
In quel momento Francesco ricorreva alla preghiera dei Salmi per dar voce al suo sconforto. 
«Tu hai allontanato da me i miei amici, diceva a Dio.
Sono diventato uno straniero fra i miei stessi fratelli.
I miei occhi si consumano nel dolore.
Tendo le mie mani verso di Te.
E Tu, perché respingi l’anima mia?
Perché mi nascondi la tua faccia?
Sono pieno di terrore e di turbamento».
Ma la sua preghiera si faceva ancor più insistente al dir questo versetto:
«Insegnami le Tue vie, o Dio, o Eterno».
In questa supplica si riversava tutta l’anima sua.
Egli dava voce al suo desiderio imperioso che era di conoscere i disegni di Dio al suo riguardo. 
Più non sapeva quel che Dio volesse da lui, e più si chiedeva angosciato cosa dovesse fare per riuscirgli gradito. Fin dai tempi della sua conversione, Francesco non aveva mai desistito dal tendere al Bene. Egli credeva d’essersi lasciato condurre da Dio.
Ed ecco che ora ne subiva uno scacco. 
Nel seguire la povertà e l’umiltà di Cristo, Francesco non aveva aspirato che alla Pace ed al Bene. E sotto ai suoi passi era nata la zizzania, e s’era messa a fiorire abbondante.

venerdì 26 luglio 2013

L’uomo vi veniva costretto ad attingere la verità, e nulla più. Ci si faceva sobri di parole e di gesti. Gli stessi sentimenti si placavano e si facevan più semplici.

Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Solo nella notte - cap. 2

In faccia al piccolo oratorio si ergeva la casa dei frati.
Ma si poteva veramente chiamarla casa questa?
Era una capanna ricoperta di rami, capace di cinque o sei persone soltanto. La luce del giorno vi penetrava a gran fatica da una finestrella aperta nel muro. Il pavimento era di nuda roccia. Il mobilio consisteva in una panca di pietra e in una grande croce di legno nero che pendeva dalla parete. Pochi pietroni, disposti in un angolo del vano, costituivano un focolare. Questa capanna serviva ai frati da cucina, da refettorio e da luogo di riunioni. Ma i frati non vi abitavano. Le loro celle si aprivano, non lontane, sul versante scosceso della montagna. Erano grotte naturali le celle, grotte profonde alle quali si accedeva attraverso un ammasso di rupi. Per giungere a quei nidi oscuri scavati nella muraglia, ci sarebbero voluti uomini simili a camosci agili, leggeri ed aerei. S’apriva qua e là il precipizio sotto i passi dei viandanti.

L’arrivo di Francesco e di Leone all’eremo non aveva provocato nulla di nuovo, né di diverso, nella solita esistenza dei frati. Del resto, questa era molto semplice.
Lassù si seguiva la regola che Francesco stesso aveva dettato per gli eremi.
«Coloro che intendono vivere da religiosi negli eremi, aveva prescritto Francesco, vi abiteranno a gruppi di tre, o quattro frati soltanto. Due di essi si occuperanno delle cose materiali e provvederanno al cibo per tutti gli altri. Siano essi come le madri e considerino gli altri come loro figlioli.
Essi vivranno come Marta, mentre gli altri due frati non faranno che pregare.
Poi, a turno, si scambieranno le loro mansioni».
Due frati si incaricavano, così, di provvedere alla vita materiale delle piccole comunità,
mentre gli altri due si dedicavano in tutta libertà alla preghiera.

In quel luogo selvaggio e dirupato, dove ci si muoveva tra ardue scalate e discese veloci e pericolose,
il corpo stesso si faceva più agile e leggero, sempre più docile ai comandi dello spirito.
Per vivere questa vita di preghiera si rendeva necessario un temperamento da acrobata. Bisognava camminare sulle mani, senza paura, perdendo brandelli di tonaca stracciata dalle sporgenze delle rocce.
Francesco pensava che tali acrobazie fossero un modo, anch’esse, di render lode a Dio.
Il corpo e l’anima, saldamente congiunti tra loro,
partecipavano in tal modo allo stesso slancio e
ritrovavano la loro unità nella vera pace dello spirito.

Ed era questa una grande saggezza.
Questa esistenza, spogliata d’ogni comodità, non tollerava più nessun artificio.
L’uomo vi veniva costretto ad attingere la verità, e nulla più.
Ci si faceva sobri di parole e di gesti.
Gli stessi sentimenti si placavano e si facevan più semplici. 
E ciò non era dovuto né a letture, né a meditazioni;
ma soltanto a quella santa e dura obbedienza alle cose, provocata dalla povertà allorché questa viene accettata in tutto il suo rigore. 
Era una scuola dura che insegnava a sentire diversamente dal solito,
con maggiore semplicità e più aderenza alle cose.

giovedì 25 luglio 2013

E come avrebbe potuto presentarsi nella veste di un messaggero di pace, lui che non disponeva di pace in cuor suo?


Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Quando non c’è più pace - cap. 1


Giunti al sommo della prima collina, Francesco e Leone scorsero dinanzi a loro la piccola montagna boscosa dov’era nascosto l’umile rifugio dei frati. Essi si arrestarono un istante a contemplare quella verde piramide fiorita sulla proda di un contrafforte appenninici. La flora rigogliosa mascherava l’asprezza selvaggia del luogo. L’altro versante, che non si vedeva da lì, ma che Francesco conosceva bene, era molto più dirupato: un vero ammasso di rocce. Al di sopra del monte, per quanto l’occhio potesse spaziare, il cielo era tutto sereno e luminoso.

Era una bella sera tranquilla dell’estate morente. Il sole s’inabissava dietro la cresta dei monti. Non ne restava ormai più che un vapore di luce. Cominciava a far freddo, ed una leggera nebbia azzurrina prendeva a diffondersi per ogni dove sui burroni violacei.
Il sentiero saliva ora, serpeggiando lungo il fianco della montagna.

I due frati procedevano lenti e silenziosi. Francesco camminava un po’ curvo, con gli occhi fissi al terreno.
Camminava col passo grave di un uomo piegato da una soma eccessiva. 
Non era il peso degli anni che lo affaticava così. Era sulla quarantina, e non più.
Né il peso delle sue colpe, benché non si fosse mai, come ora, sentito tanto colpevole agli occhi di Dio.
E neppure la preoccupazione del suo Ordine in generale lo affaticava.
Francesco non conosceva l’Ordine in un modo generico. Come del resto egli non conosceva nulla in maniera generica. Ci voleva ben altro per abbatterlo, che delle vedute astratte.

Il suo lento passo affaticato dipendeva dalle preoccupazioni che egli nutriva per ciascuno dei suoi frati in particolare.
Quando pensava ai suoi frati - e non cessava più di pensarci - egli rivedeva ciascuno di loro con la sua fisionomia, le sue gioie e le sue sofferenze personali alle quali egli prendeva viva parte. Francesco avvertiva il dramma che si svolgeva allora nell’anima di molti suoi figli, e ne coglieva le sfumature più intime in modo profondo e straziante. Aveva il dono di sentire intensamente - quasi un istinto materno che gli veniva, forse, da sua madre Pica. «Se una madre nutre ed ama suo figlio secondo la carne, soleva ripetere Francesco, quanto più dovremo noi nutrire i nostri fratelli secondo lo Spirito».
Quand’era giovane e viveva nel mondo, la sua ricca sensibilità faceva di lui un essere molto ricettivo e vulnerabile. Essa lo rendeva vibrante a tutto ciò che fosse vivo, giovane, nobile e bello: alle prodezze dei cavalieri, ai poemi delle corti d’amore, agli splendori della natura, agli incanti dell’amicizia. Quella stessa sensibilità lo rendeva più compassionevole verso le miserie della povera gente, e lo scuoteva tutto allorché un mendico gli si rivolgeva con le parole: «Per l’amore di Dio». La sua conversione non aveva distrutto questa sua sensibilità. Non ne aveva spezzato alcuna molla. L’aveva sioltanto resa più profonda e più pura. Dio gli aveva fatto sentire quanto la sua vita fosse vana: Francesco era diventato più attento a richiami più profondi, quali il richiamo, ad esempio, del lebbroso che, incontrato un giorno nella campagna d’Assisi, Francesco abbracciò superando ogni disgusto; ed il richiamo del Crocifisso della chiesetta di San Damiano, che, animatosi sotto il suo sguardo, gli aveva detto: «Va’, Francesco, e restaura la mia casa che, come vedi, sta cadendo in rovina». Il suo sentimento, già forte, si era approfondito; e lo aveva reso sempre più disponibile al dolore e capace di soffrire.

Ora il giorno volgeva al suo termine. Faceva già buio sotto gli olmi e i pini arrampicati sulla roccia. Nel folto dei boschi s’udì il grido di un uccello notturno. Frate Leone disse:
- Non arriveremo prima di notte.
Francesco non disse nulla. Egli pensava che era meglio giungere col buio. I frati dell’eremo non si sarebbero accorti della sua tristezza.
Passarono accanto alla piccola fonte dove i frati venivano ogni giorno ad attingere acqua ed il cui mormorio ne rivelava la presenza nell’ombra del bosco. Ora la meta era vicina e Francesco sentì un dubbio nel cuore.
Egli era solito esclamare, giungendo ad una casa: «Pace a questa casa», come comanda il Signore nel Vangelo. Ma aveva tuttora il diritto di dirlo? Non era forse una slealtà da parte sua questa offerta d’un bene ch’egli era ben lungi dal possedere? E come avrebbe potuto presentarsi nella veste di un messaggero di pace, lui che non disponeva di pace in cuor suo? Francesco alzò gli occhi al cielo. Tra i rami dei pini che s’infoltivano lungo il sentiero, appariva un sottile nastro di cielo oscuro. S’accendevano le stelle in cielo. Francesco sospirò. Nella notte dell’anima sua non c’erano stelle. Ma bisognava forse attendere l’alba per seguire il Vangelo e per aderire all’invito del Signore?
I due frati raggiunsero in quel momento il luogo ove sorgevano il piccolo oratorio e l’eremo. Frate Leone girò intorno alla casa, mentre Francesco, alzando la voce, salutò nel silenzio della notte:
«In nome del Signore, sia Pace a questa casa».
E l’eco nei boschi gli rispose: «...a questa casa».

mercoledì 24 luglio 2013

Egli aveva affermato gridando: «Il Vangelo non ha bisogno di giustificazioni. Lo si accetta o lo si rifiuta».

Frate Francesco e frate Leone stanno salendo con dura fatica alla Porziuncola. In una breve sosta Francesco apre a  frate Leone lo scrigno che rinserra il suo cuore in una cupa tristezza: il comportamento di alcuni frati che hanno dimenticato la vera vocazione per seguire una posizione sicura nella Chiesa.
Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Quando non c’è più pace - cap. 1

Leone camminava dinanzi.
Francesco lo seguiva a gran fatica; rievocando l’ultimo suo soggiorno alla Porziuncola durante il quale si era operato a ricondurre i suoi frati alla loro vocazione.

L’ultimo capitolo generale della Pentecoste li aveva riuniti tutti insieme. 
In quell’occasione Francesco aveva parlato chiaro.
Senonché, si era subito accorto che parecchi frati non parlavano più il suo stesso linguaggio. Cercar di convincerli sarebbe stata fatica sprecata. Allora Francesco si era alzato in piedi al cospetto dei suoi tremila frati riuniti. Era fiero e corrucciato come una madre alla quale si vogliono strappare i figli.

Egli aveva affermato gridando:
«Il Vangelo non ha bisogno di giustificazioni. Lo si accetta o lo si rifiuta».
I suoi primi discepoli, i compagni fedeli, erano raggianti. Speravano essi che Francesco avrebbe ripreso in mano, ben salda, la direzione dell’Ordine. Ma le sue forze fisiche venivano meno. Egli era tornato dalla Palestina in deplorevoli condizioni di salute. Per tener testa ai dissidenti bisognava disporre di un uomo forte dal temperamento di capo. Il Cardinale Ugolino, protettore dell’Ordine, consigliava il fratello Elia.

E Francesco aveva approvato non senza qualche apprensione.
In quanto a lui, malato di fegato e di stomaco, con gli occhi infettati e bruciati dal sole d’Oriente e dalle sue stesse lacrime, aveva deciso di tacere e di pregare. Ma una cappa di tristezza gli pesava addosso. La tristezza gli contaminava l’anima come una specie di ruggine e gliela divorava notte e giorno. Molto oscuro gli appariva il futuro del suo Ordine. Egli ne prevedeva le scissioni, poiché gli erano ben noti i cattivi esempi forniti da taluni frati e lo scandalo suscitato presso i fedeli. Lo stesso frate Elia, capo dell’Ordine, esibiva atteggiamenti da gran signore, favorendo in tal modo i riformatori.

Il dolore di Francesco era tale da non potersi nascondere.
Egli non poteva più mostrare ai suoi frati il volto aperto e cordiale di sempre. Perciò Francesco ora si allontanava da essi e andava ad occultare la sua pena tra i monti e nel folto delle selve.
Egli aveva stabilito di ritirarsi in uno di quegli eremi da lui stesso fondati pochi anni prima sui contrafforti appenninici.
Lassù, almeno, in quel silenzio e in quella solitudine non avrebbe più sentito parlare di cattivi esempi.
Lassù avrebbe potuto vivere d’astinenza e di preghiera fino al giorno in cui il Signore, avendo pietà di lui, si fosse degnato di apparirgli.


martedì 23 luglio 2013

Costoro, pensava Francesco con un certo senso di tristezza, non hanno il gusto della semplicità e della povertà evangelica.

In onore del nostro Papa Francesco che sta camminando alla fine del mondo, ho deciso di leggere Eloi Leclerc, La sapienza di un povero, la vita di San Francesco. Riporterò ogni giorno qualche pezzo  sottolineando e evidenziando il testo per far vedere la lettura che ne farò. Se mi scapperà qualche osservazione, chiedo venia se le mie parole distrarranno il lettore. Confesso che tutt'altra era la mia intenzione.

Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Quando non c’è più pace - cap. 1

Abbandonata che ebbero la strada polverosa ed assolata dove camminavano già da due lunghe ore, frate Francesco e frate Leone s’erano inoltrati per un viottolo che li portava, attraverso i boschi, alla montagna.
Essi procedevano a gran fatica, esausti ambedue. 
Avevano sofferto un gran caldo durante il loro cammino in pieno sole sotto il peso del loro saio marrone. Ora essi apprezzavano più che mai l’ombra che li investiva dal folto degli aceri e delle querce.
Ma la salita era dura, ed i loro piedi nudi calpestavano ad ogni passo pietre pungenti.

Giunto ad un tratto di strada ancora più ripido, Francesco s’arrestò sospirando.
Allora il suo compagno, che lo precedeva di qualche passo, s’arrestò anche lui, e, rivolgendosi a Francesco, gli chiese con tono di voce rispettosa e cordiale:
 - Vuoi tu, Padre, che riposiamo qui per un momento?
 - Sì, volentieri, fratello Leone - replicò Francesco.

Francesco confida ciò che lo amareggia e lo affatica ben più della salita 
 I due frati si misero a sedere l’uno accanto all’altro, appoggiando la schiena al tronco di una enorme quercia.
 - Mi sembri molto stanco, Padre - disse Leone.
 - Sì, lo sono invero - replicò Francesco. - Ed anche tu devi esserlo, senza dubbio. Ma lassù, nella solitudine della montagna, ci riprenderemo. Era ormai tempo ch’io partissi. Non potevo più rimanere in mezzo ai miei frati.
Francesco tacque, chiuse gli occhi e rimase a lungo immobile, tenendo le mani incrociate sulle ginocchia e la testa appoggiata al tronco dell’albero.
Leone lo osservò allora con grande attenzione, e ne fu spaventato.

Francesco non esprime più la gioia radiosa che ha sempre contraddistinto il suo cammino.
Il viso di Francesco, non che solcato ed emaciato, era pur disfatto e soffuso di una profonda tristezza. Non c’era più traccia di luce su quel volto già tanto radioso. Non c’era che l’ombra dell’angoscia, di un’angoscia repressa e radicata giù nel profondo dell’anima che ne veniva piano piano soffocata. Il suo viso pareva quello di un uomo alle prese con una tremenda agonia. Un’aspra ruga ne solcava la fronte e la bocca aveva una piega amara.

Francesco non ode la natura perché i suoi pensieri lo portano altrove 
Sulla loro testa una tortora nascosta tra le foglie della quercia, modulava un canto lamentoso. Ma Francesco non la intese, tutto preso dai suoi pensieri. Questi lo riconducevano sempre, suo malgrado, alla Porziuncola. Il suo cuore era attaccato a quel po’di terra nei pressi di Assisi, e alla sua chiesetta di Santa Maria che lui, con le sue mani aveva restaurata. Non era lì che quindici anni innanzi, il Signore gli aveva concesso la grazia di cominciare a vivere in compagnia di pochi frati secondo lo spirito del Vangelo?
A quel tempo tutto era bello e luminoso come una primavera umbra. 
I frati costituivano una vera comunità di amici. I rapporti tra loro erano facili, semplici e trasparenti. Una trasparenza di fonte. Ognuno si sentiva sottomesso a tutti e non aspirava che a conformarsi alla vita e alla povertà di Cristo Signore. Il Signore stesso aveva benedetto l’esiguo sodalizio. Questo s’era fatto sempre più numeroso. E attraverso l’intera Cristianità s’eran viste fiorire tante piccole comunità di frati.
Ma ora quell’edificio pareva stesse per crollare.
L’unanime amore della semplicità s’era esaurito. Si facevano aspre e laceranti dispute fra i frati. Taluni d’essi, neofiti eloquenti e influenti, affermavano impassibili che la Regola non rispondeva più ai bisogni della Comunità. Avevan le loro idee sulla questione. Era necessario, dicevano, inquadrare questa folla di frati in un Ordine ben saldo e gerarchico. A tal fine era d’uopo ispirarsi alla legislazione dei grandi Ordini antichi e non esitare a fondare istituzioni vaste e durevoli che avrebbero costituito un valido appoggio per l’Ordine dei frati minori. Perché, aggiungevano essi, nella Chiesa, come in ogni luogo, si ha il posto che si occupa.

Costoro, pensava Francesco con un certo senso di tristezza, non hanno il gusto della semplicità e della povertà evangelica.
Egli li vedeva intenti a scalzare l’opera sua, già edificata con l’aiuto del Signore. Questa visione lo faceva soffrire amaramente. E poi c’erano gli altri: tutti coloro che in nome della libertà evangelica, o per aver l’aria di disprezzarsi, si concedevano ogni sorta di fantasie e di capricci di pessimo gusto. La loro condotta turbava i fedeli e screditava la famiglia dei frati. Anche costoro scalzavano l’edificio del Signore.

Francesco riaperse gli occhi e, guardando fisso davanti a sé, prese a mormorare:
- Ci sono troppi frati minori.
Poi, di colpo, come per disperdere questa idea importuna, si alzò e si rimise in cammino.
- Ho fretta - soggiunse - d’arrivare lassù e di ritrovarvi un vero nido di Vangelo. Sulle montagne l’aria è più pura e gli uomini sono più vicini a Dio.
- Frate Bernardo, Rufino e Silvestro saranno felici di rivederti, - disse Leone.
- Anch’io li rivedrò con gran piacere - replicò Francesco. - Essi mi sono rimasti fedeli, sono compagni della prima ora.

lunedì 22 luglio 2013

Egli stesso vuole questa volontà; eseguirla è il “cibo” della sua vita. Così la pressione del destino diviene libertà. La libertà più alta e il dovere più grave si identificano. Si vedano le arcane parole pronunciate sulla via di Emmaus: “Non doveva forse il Cristo patire tutto ciò e così entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26).


Accettazione
tratto da Romano Guardini, Virtù, Morcelliana, pp. 33-44

        L’accettazione autentica è possibile
unicamente in ordine a una istanza di cui ci si possa fidare,
ed essa è il Dio vivente.
Quanto più ciò che dobbiamo accettare tocca da vicino la nostra vita,
quanto più esattamente l’accettazione importa un superamento di noi stessi -
un “lasciarsi calare dentro” come dicevano i maestri spirituali del medioevo;
un abbandonarsi nell’intimo di ciò che è
- tanto più io ho bisogno di sapere di che genere
sia l’onnipotente pensiero che si rivolge a me.
        C’è una domanda, senza dubbio sciocca, ma che ha bisogno d’essere espressa, poiché essa ci aiuta a penetrare meglio nel nostro rapporto con questo Dio troppo grande di noi:
Sa davvero Dio ciò che pretende da noi, Lui che non ha destino, dato che non c’è potenza che possa imporgli nulla?
Le sue disposizioni non vengono forse sempre, se così si può dire, “dall’alto”, olimpicamente, dalla serena freddezza dell’essere assolutamente intoccabile?
        Qui la rivelazione ci parla di un mistero,
confortante quanto incomprensibile:
che Dio in Cristo ha deposto questa intoccabilità.
Con l’incarnazione Egli è entrato in quello spazio
che forma per quelli che ci vivono
una unica catena di destino, cioè nella storia.
Quando l’eterno Figlio è diventato uomo,
lo è realmente diventato, senza difese né privilegi;
è diventato vulnerabile da parte di cose e parole;
intessuto come noi nella fittissima trama delle vibrazioni e delle influenze
che s’irradiavano dallo smarrito cuore umano.
Anzi la condizione era un’altra volta diversa ancora,
giacché un uomo vien colto da tali irradiazioni tanto più duramente,
quanto più il suo spirito è grande,
profondo il suo cuore e viva la sua vita.
Avere destino vuol dire appunto soffrire;
quanto più uno è capace di dolore,
tanto maggiore si fa nella sua esistenza l’elemento del destino.
Quali catene di pensieri si aprono allora!
Quale culminazione sperimenta il concetto!
Il Figlio di Dio entra nella storia per espiare la nostra colpa e
per portarci a una nuova grande possibilità.
Ed egli lo fa pronto ad accettare tutto quello che gli sarebbe capitato,
senza precauzioni, deviazioni, resistenze o astuzie!
Gli uomini, i quali non hanno precisamente nessuna forza
su Colui “a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”,
gli creano il più amaro dei destini;
ma esso è la forma che la volontà del Padre ha assunto a Suo riguardo.
Egli stesso vuole questa volontà;
eseguirla è il “cibo” della sua vita.
Così la pressione del destino diviene libertà.
La libertà più alta e il dovere più grave si identificano.
Si vedano le arcane parole pronunciate sulla via di  Emmaus:
“Non doveva forse il Cristo patire tutto ciò e così entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26).
        Ora Dio non è “l’Essere assoluto” della pura filosofia,
ma è Colui che è tale che la sua essenza più intima, cioè il suo amore,
si esprime in questo fare di Cristo.
E la sua signoria è quella altissima libertà che è capace e che vuole realizzare tale fare.
        Soltanto da questo punto di vista è possibile comprendere e dominare l’esistenza.
Non dal punto di vista di questa o quella filosofia della personalità e del suo rapporto col mondo,
ma della fede a ciò che Dio ha fatto, e in comunione con Lui.
L’immagine che tutto riassume è la croce,
come Egli disse:
“Chi vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24).
Ognuno la “sua”; quella che gli è stata assegnata.
Allora il Maestro opera in lui il mistero della santa libertà.

domenica 21 luglio 2013

L’auto-accettazione significa che io sono d’accordo di esistere, in senso puro e semplice.


Accettazione
tratto da Romano Guardini, Virtù, Morcelliana, pp. 33-44

        Cerchiamo di capire il significato di tale accettazione con una più precisa consapevolezza dei contenuti di essa.
        Tali contenuti sono io anzitutto a costituirli. Giacché io non sono un uomo in genere, ma quest’uomo determinato. Ho questo carattere e nessun altro: questo temperamento fra tanti; queste energie, debolezze, possibilità, limiti. Ecco quanto io devo accettare ed ecco ciò su cui io mi devo porre come sulla base prima della mia vita.
        Tutto ciò, ripetiamo, non è affatto ovvio, esiste anche appunto
- il che getta una acuta luce sulla finitezza del nostro essere -
la nausea di noi stessi, la protesta contro se stessi.
Dobbiamo un’altra volta pensare che
l’uomo non è come l’animale tutto concluso in se stesso, 
ma può librarsi sopra di sé. 
Egli può farsi delle idee su come gli piacerebbe essere, e
quanti ce ne sono che vivono come avvolti dentro aloni di sogno
invece che nella coscienza della propria realtà.
Conosciamo anche quell’attività strana per mezzo della quale
l’uomo cerca di sgusciar via da ciò che egli è:
il travestimento, la maschera, il gioco.
Non parla forse di tutto ciò il desiderio, 
vano ma di continuo ritornante, 
d’essere altri da quello che realmente si è?
Insorge così l’imperativo, rigoroso ma arduo da eseguire,
di voler anche realmente essere quello che si è,
convinti che là dietro sta non una sorda necessità di natura
 e non una maligna contingenza, 
ma una indicazione che viene da un’eterna sapienza.
Si vuol dire con questo che io devo accettare non solo le forze che possiedo,
ma anche le debolezze;
non solo le possibilità, ma anche i limiti.
Giacché così stanno le cose con la nostra strana natura umana:
che quanto ci porta e ci innalza anche ci opprime;
che quanto ci garantisce anche ci minaccia.
A ogni struttura d’essere appartiene il positivo, ma anche il negativo, e
non è possibile evadere da tale situazione.
        E’ una grande saggezza che noi conquistiamo imparando tutto ciò:
che non si può evadere dai dati fondamentali dell’essere
ma che dobbiamo accettare la situazione in tutto il suo complesso.
Questo non significa che si debba prender per buono tutto e tutto lasciare come sta,
assolutamente no.
Io posso e devo lavorare, plasmare e migliorare me stesso e il mio carattere,
ma anzitutto dire sì a ciò che è, altrimenti tutto si falsifica.
        A chi ha il dono d’una intelligenza attiva e precisa, d’un occhio pratico, d’una mano decisa
è interdetta una fantasia creatrice e la bellezza del sogno,
che appartengono  invece all’attitudine artistica.
A questa invece sono assegnate,
come contropartita dei suoi propri doni,
le ore oscure del vuoto interiore e della desolazione,
e una difficoltà di adeguamento al mondo reale e ai suoi calcoli.
Chi ha sentimento profondo per sentire la felicità della vita deve affrontare anche la sua infelicità.
Nessuno può pretendere di tenere per sé l’una e di buttare via l’altra cosa,
ma deve, se vuole essere fedele alla realtà,
dire sì al quadro totale della propria esistenza.
Chi ha un carattere freddo e perciò corazzato contro i dispiaceri non sa però nulla delle grandi estasi ed ebbrezze della vita.
        Ciò non significa, un’altra volta, che si debba dire buono quello che buono non è.
Il brutto è brutto, il cattivo è cattivo e l’odioso deve essere chiamato odioso.
Ma ogni sforzo che voglia sviluppare il buono e vincere il cattivo
si fonda anzitutto sulla presupposizione 
che si deve prima riconoscere ciò che è.
Quanti sono quelli che si fabbricano un fantasma di se stessi
e si ingannano passando sopra a cose che pure in essi esistono!
Vanno in furia quando si richiama la loro attenzione verso un loro difetto
e fanno grandi meraviglie quando qualcosa a loro non riesce.
Il principio d’ogni proposito e conquista morale sta nel riconoscere ciò che è;
anche gli errori e i difetti.
Soltanto se io decido lealmente di portare il peso dei miei difetti,
giungo alla serietà
e solo in un secondo tempo può allora cominciare il lavoro per un superamento.
        Bisogna anche accettare la situazione esistenziale come ci è stata assegnata.
Si possono certamente cambiare e migliorare molte cose
e si può rendere questa situazione più conforme ai nostri desideri;
e tanto più quanto più risoluti sono questi desideri e più la mano ce li vuole realizzare.
Ma in fondo a tutto rimane l’impostazione,
quel primo gradino che si è fissato fin dai miei primi anni
e che determina tutto il seguito dell’esistenza.
Gli psicologi dicono che già con il terzo o quarto anno sono date le determinazioni fondamentali d’un bambino.
Esse passano tutte nella vita successiva,
unitamente agli influssi
che le persone dell’ambiente, il gruppo sociale, la città o la campagna hanno esercitati su di lui.
        Anche l’epoca storica in cui vivo è penetrata in me e di continuo vi penetra;
gli avvenimenti, le situazioni, le possibilità e le limitazioni sue.
Tutto questo io devo per prima cosa accettare se voglio accingermi a cambiarvi qualche cosa. Quanto ciò sia essenziale lo si percepisce dagli atteggiamenti di coloro che non lo fanno e che invece cercano di evadere dal proprio tempo: nel passato, come i romantici che trovano il presente sempre spoglio di attrattive e bello solo ciò che è stato; oppure nel futuro, come gli utopisti che vivono solo in ciò che sarà e gli danno di continuo la caccia. E’ sempre l’accettazione del reale che fonda la lealtà dell’esistenza.
        Un passo più avanti e siamo all’accettazione del destino. Il “destino” non è il caso; implica una consequenzialità, definita anzitutto esteriormente da concatenazioni di eventi, ma anche interiormente dalla natura della persona in questione.
        Nella vita d’un uomo mediocremente dotato non si verificano né i trionfi, né le catastrofi che toccano l’uomo geniale. A un carattere amministrativo e organizzativo non succedono gli smarrimenti che colgono invece l’artista, allo stesso modo che costui non esperimenta nella vittoria e nella sconfitta ciò che vi sperimenta chi è nato per la conquista e l’esercizio del potere. La natura propria d’un uomo è, in tal modo, come un setaccio che lascia scorrere certe esperienze e ne ferma altre.
        Le disgrazie stesse che ci colpiscono - per esempio un fulmine che ci cade sulla casa - sono diverse se colui a cui la casa appartiene perde il proprio controllo e viene coinvolto nella rovina o se invece è capace di autodisciplina e di resistenza. Si può così in qualche modo dire che a ciascuno è stato assegnato per mezzo del suo carattere un abbozzo del suo destino. Non è una necessità fissa; vi contraddice il fatto della libertà, la quale di continuo partecipa, nel piccolo e nel grande, alla elaborazione d’una vicenda umana, ma è una direzione, un carattere radicale, spesso una verosimiglianza di un certo processo. Ma un’altra volta ciò che importa è che l’uomo accetti il suo destino, per poi tanto più decisamente impegnarsi a guidarlo e a plasmarlo.
        La vita dell’uomo moderno è dominata da una concezione che è il controgioco dell’angoscia sempre latente nei suoi nervi: dall’idea di potersi garantire contro i pericoli crescenti. E’ possibile realmente far molto in questo senso. E’ possibile, per fare solo un esempio, calcolare quanto sia grande in una certa professione la probabilità di una vita lunga, e quanto grande in un’altra la probabilità d’una disgrazia; e con tanto maggiore precisione in quanto possiamo disporre di macchine le quali eseguono il lavoro che prima non si poteva controllare in ogni suo punto. Tuttavia contro la stessa vita non ci si può assicurare, ma la si deve accettare con tutto ciò che essa implica nelle grandi e nelle piccole cose, nelle possibilità di disgrazia o di fortuna. Accettare il destino significa in fondo accettare se stessi e cimentarsi con se stessi.
L’idea ha trovato la sua forma pagana-scettica nel concetto dell’amor fati:
l’amore, generato dal dispetto, verso il proprio destino;
e la sua forma cristiana nell’affermazione della vita prefigurata dalla propria personale natura,
nella fiducia che tutto si fonda su prescrizioni o assegnazioni divine.
        L’ordine logico dei nostri pensieri porta ancora oltre:
non soltanto a difenderci dal dolore e dalla sventura,
oppure, se non è possibile sviarli, ad affrontarli,
ma ad accettare la loro amarezza.

Bisogna esser stati educati alla scuola di Cristo per essere capaci di ciò,
poiché la nostra natura si comporta diversamente.

Essa protesta contro il dolore, e contro questo non c’è nulla a tutta prima da obiettare,
tanto più che esiste anche un consenso al dolore che nasce dalla debolezza,
anzi esiste anche una ricerca morbosa di esso.
Ma il puro e semplice rifiuto perde il significato che il dolore ha nella vita:
giustamente capito e sostenuto, esso approfondisce la vita,
la purifica, porta l’uomo in una superiore unità con se stesso in quanto
egli si unisce alla volontà divina che sta dietro ogni accadimento.
        Anzi il dolore stesso può in tal modo farsi più leggero.
Se un uomo è alle prese con un amaro dolore - corporeo o spirituale -
e gli riesce di eliminare la ribellione e di abbandonarsi entro di esso,
allora tutto il peso si trasforma,
 ed egli esperisce una libertà profonda,
la libertà nel dolore.
        Un’ultima cosa in fine.
L’auto-accettazione significa che io sono d’accordo di esistere, in senso puro e semplice.
        Questa affermazione suona strana a quelli le cui cose vanno bene,
perché allora si vive e si avanza nel proprio essere ed agire e non si pensa altro.
Ma vengono anche altre ore,
le ore della sventura, dell’insuccesso, della noia;
allora si apre una frattura fra me e me stesso.
Io non mi sono trovato davanti alla possibilità della mia esistenza e
non ho io deciso di voler essere,
ma sono stato collocato nell’essere.
Sono uscito dalla vita dei miei genitori,
dalla vita dei miei antenati,
dalle contingenze del tempo.
L’evento della mia nascita mi ha detto: ora tu sei.
Vivi dunque te stesso!
In certi momenti uno può avere l’intima percezione di quale grazia sia poter esistere, poter respirare, sentire, fare.
Ma può anche succedere il contrario, e ad esempio, la parola che definisce l’esistenza può allora suonare a qualcuno non come “esaudimento”,
ma come “imposizione”.
Quando le forze scemano, le cose ingrigiscono, i doveri opprimono;
in tempi, di malattia e di lunga indigenza,
in ore di scoraggiamento o di malinconia,
può insorgere la protesta: Io non sono stato interrogato.
Non ho voluto essere.
Perché devo?
Allora si sente che dover essere potrebbe essere una pretesa impostaci,
e che accettare l’esistenza può essere un atto da realizzare a grande profondità.
Perché essa potrebbe anche essere respinta:
in un a maniera stanca e ottusa quando l’uomo si trascina a vivere
con l’alzata di spalle della rassegnazione;
ma anche con atti disperati,
giacché il numero di coloro che si tolgono la vita
è spaventosamente grande e sembra aumentare.
Il numero di coloro per i quali il dono dell’esistenza è diventato un peso che non sono disposti a portare; o forse anche semplicemente non lo possono, perché nessuna fede e nessun amore insegna loro a capire l’arduo enigma.
        In tutto ciò non esiste via d’uscita con motivi unicamente umani. Questo andava già detto all’inizio delle nostre considerazioni. Giacché quando noi riflettevamo che non siamo noi a darci l’esistenza, ma che la riceviamo, la prima domanda sarebbe dovuta essere: Da chi? E la risposta sarebbe stata: dai genitori, dalla situazione storica, dagli antenati. Ma in definitiva e attraverso tutte le mediazioni intermedie, da Dio. Non potremo mai realizzare l’accettazione - quella autentica - se non si viene in chiaro da che cosa dobbiamo accettarla, questa nostra realtà: dall’oscurità dei processi naturali, dall’insensatezza del caso, dalla malizia d’un demone, oppure dalla pura sapienza e dal puro amore di Dio. E vogliamo di continuo richiamare alla nostra coscienza che la rivelazione di Cristo, che fa da fondamento a ogni altro suo atto, fu di rivelarci gli atteggiamenti e i sentimenti di Dio a nostro riguardo
.