venerdì 26 luglio 2013

L’uomo vi veniva costretto ad attingere la verità, e nulla più. Ci si faceva sobri di parole e di gesti. Gli stessi sentimenti si placavano e si facevan più semplici.

Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
Solo nella notte - cap. 2

In faccia al piccolo oratorio si ergeva la casa dei frati.
Ma si poteva veramente chiamarla casa questa?
Era una capanna ricoperta di rami, capace di cinque o sei persone soltanto. La luce del giorno vi penetrava a gran fatica da una finestrella aperta nel muro. Il pavimento era di nuda roccia. Il mobilio consisteva in una panca di pietra e in una grande croce di legno nero che pendeva dalla parete. Pochi pietroni, disposti in un angolo del vano, costituivano un focolare. Questa capanna serviva ai frati da cucina, da refettorio e da luogo di riunioni. Ma i frati non vi abitavano. Le loro celle si aprivano, non lontane, sul versante scosceso della montagna. Erano grotte naturali le celle, grotte profonde alle quali si accedeva attraverso un ammasso di rupi. Per giungere a quei nidi oscuri scavati nella muraglia, ci sarebbero voluti uomini simili a camosci agili, leggeri ed aerei. S’apriva qua e là il precipizio sotto i passi dei viandanti.

L’arrivo di Francesco e di Leone all’eremo non aveva provocato nulla di nuovo, né di diverso, nella solita esistenza dei frati. Del resto, questa era molto semplice.
Lassù si seguiva la regola che Francesco stesso aveva dettato per gli eremi.
«Coloro che intendono vivere da religiosi negli eremi, aveva prescritto Francesco, vi abiteranno a gruppi di tre, o quattro frati soltanto. Due di essi si occuperanno delle cose materiali e provvederanno al cibo per tutti gli altri. Siano essi come le madri e considerino gli altri come loro figlioli.
Essi vivranno come Marta, mentre gli altri due frati non faranno che pregare.
Poi, a turno, si scambieranno le loro mansioni».
Due frati si incaricavano, così, di provvedere alla vita materiale delle piccole comunità,
mentre gli altri due si dedicavano in tutta libertà alla preghiera.

In quel luogo selvaggio e dirupato, dove ci si muoveva tra ardue scalate e discese veloci e pericolose,
il corpo stesso si faceva più agile e leggero, sempre più docile ai comandi dello spirito.
Per vivere questa vita di preghiera si rendeva necessario un temperamento da acrobata. Bisognava camminare sulle mani, senza paura, perdendo brandelli di tonaca stracciata dalle sporgenze delle rocce.
Francesco pensava che tali acrobazie fossero un modo, anch’esse, di render lode a Dio.
Il corpo e l’anima, saldamente congiunti tra loro,
partecipavano in tal modo allo stesso slancio e
ritrovavano la loro unità nella vera pace dello spirito.

Ed era questa una grande saggezza.
Questa esistenza, spogliata d’ogni comodità, non tollerava più nessun artificio.
L’uomo vi veniva costretto ad attingere la verità, e nulla più.
Ci si faceva sobri di parole e di gesti.
Gli stessi sentimenti si placavano e si facevan più semplici. 
E ciò non era dovuto né a letture, né a meditazioni;
ma soltanto a quella santa e dura obbedienza alle cose, provocata dalla povertà allorché questa viene accettata in tutto il suo rigore. 
Era una scuola dura che insegnava a sentire diversamente dal solito,
con maggiore semplicità e più aderenza alle cose.

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