sabato 2 marzo 2013

Restare nella vecchia situazione ed essere discepolo è impossibile.

Essere discepoli significa compiere determinati passi. E, da subito, il primo passo che segue la chiamata, separa il discepolo dalla sua esistenza precedente. Così la chiamata alla sequela crea immediatamente una nuova situazione.
Restare nella vecchia situazione ed essere discepolo è impossibile.
All’inizio questo era ben evidente.
Il pubblicano dovette abbandonare il banco delle imposte;
Pietro dovette lasciare le sue reti, per seguire Gesù.
Secondo la nostra comprensione ci potevano essere altre soluzioni: Gesù avrebbe potuto offrire al pubblicano una nuova conoscenza di Dio permettendogli di restare dove si trovava. Questo sarebbe stato perfettamente possibile, se Gesù non fosse il Figlio di Dio fatto uomo.
Ma, dato che Gesù è il Cristo, doveva diventare chiaro che il suo messaggio non è una dottrina, ma una nuova creazione dell’esistenza. 
Si trattava di andare realmente con Gesù. Colui che era chiamato capiva che, per lui, c’era solo una possibilità di fede in Gesù, e cioè, abbandonare tutto e andare con il Figlio di Dio fatto uomo. Con il primo passo, il discepolo è posto nella situazione di poter credere.
Se non segue Gesù, se resta indietro, non imparerà a credere.
Chi è chiamato deve uscire da una situazione in cui è impossibile credere, verso un’altra in cui è già possibile credere.
Questo passo non ha in sé nessun valore pragmatico; si giustifica solo per la comunione stabilita così con Gesù.
Se Levi rimanesse alla dogana, o Pietro con le sue reti, potrebbero continuare onestamente e fedelmente le loro rispettive professioni, potrebbero conservare l’antica e la nuova conoscenza di Dio;
ma se vogliono apprendere a credere in Dio, devono seguire il Figlio di Dio fatto uomo e camminare con lui.
(Dietrich Bonhoeffer, Discipulado).

venerdì 1 marzo 2013

Per ricevere questa tenera consolazione di Dio / è necessario fare nostre le miserie degli oppressi

Guai a coloro che il Signore troverà ad occhi asciutti /perchè non seppero essere solidali con i poveri e i sofferenti di questo mondo. / Per ricevere questa tenera consolazione di Dio / è necessario fare nostre le miserie degli oppressi, / le nostre viscere devono commuoversi alla vista di un ferito ai lati della strada, / saper vibrare con il dolore altrui, essere più attenti alle persone, / con le loro conflittualità e il loro disordine, / che non all'ordine delle cose. / Solo sapendo tacere / e sapendo compromettersi con la sofferenza dei poveri / si potrà parlare della loro speranza. / Solo prendendo sul serio il dolore dell'umanità, / la sofferenza dell'innocente e vivendo alla luce della Pasqua il mistero della Croce, / sarà possibile evitare che la nostra teologia sia un discorso fatuo. / Solo allora non meriteremo da parte dei poveri di oggi / il rimprovero che Giobbe gettava in faccia ai suoi amici: / ”Siete tutti consolatori stucchevoli” //
(Gustavo Gutièrrez).

giovedì 28 febbraio 2013

Se pensi alla morte, diventi umile, ti lasci guidare interamente da Dio, desideri essere in pace con tutti e amare tutti.

Che fare per conoscere la pace nel proprio cuore e nel proprio corpo?
Bisogna amare tutti gli uomini come se stessi ed essere pronti a morire in ogni istante. Se pensi alla morte, diventi umile, ti lasci guidare interamente da Dio, desideri essere in pace con tutti e amare tutti.
Quando la pace di Cristo entra in te, ti rallegri di essere come Giobbe, seduto sulla spazzatura (cf Gb 2, 8).
Gli altri conoscono gli onori, tu invece sei lieto di essere maltrattato.
L’umiltà di Cristo è una grande cosa, così misteriosa che non si può spiegarla agli altri.
Nel tuo amore, ti auguri il bene degli altri più del tuo.
Sei felice quando vedi gli altri star meglio di te e sei triste quando vedi gli altri soffrire (cf Rm 12, 15).
(Silvano dell’Athos, Non disperare!).

mercoledì 27 febbraio 2013

c’è il rischio di rimuovere lo spazio in cui la persona può elaborare il significato della malattia

Oggi il malato è per lo più consegnato ai medici, alla medicina, alla tecnologia. Ma non basta, non può bastargli. Al malato è necessaria un’interpretazione del suo stato di paziente, e la medicina non può dargliela. La medicina si preoccupa di come curare il male, di come rimandare la morte, spesso a oltranza. Ma c’è il rischio di rimuovere lo spazio in cui la persona può elaborare il significato della malattia. Occorre sempre ricordare che la tecnica riguarda i mezzi e che, se presume di essere il fine, diventa idolo. [...] La malattia non è semplicemente un problema di medicina: è una domanda di aiuto, di amore, di senso. Gesù, nella sua vita pubblica, è venuto incontro molte volte alla domanda radicale dei malati. Se aiutato, il malato può diventare un richiamo potente per tutti, esprimendo dal proprio cuore sentimenti ignorati e disattesi, quali il coraggio, la speranza, la non rassegnata sopportazione. I malati, specialmente se cronici, verificano una rarefazione di partecipazione umana alla loro vicenda. Una vicenda che, di fatto, interpella fortemente la società civile, questa società nella quale domina la “cultura dei sani”. Il male fisico può diventare luogo di comunicazione, non di assenza di significato; luogo di comunione, non di isolamento; luogo di accoglienza dell’alterità propria e degli altri. Ancora, la sofferenza è luogo di conversione: gli occhi si spalancano a un orizzonte capace di dare senso all’esistenza terrena che conosce la malattia e la morte. Perché la nostra vita non è l’andare incontro al nulla, ma al Signore che viene.
(Carlo Maria Martini, Sul corpo).

martedì 26 febbraio 2013

Dio ha voluto così. E, d’ altra parte, come faccio ad amare il prossimo, o meglio, certo prossimo se prima non amo Dio?

“Per amor vostro amo il prossimo mio come me stesso”. Qui, come in Gesù, vengono congiunti i due amori: amore di Dio e amore del prossimo. I francesi dicono: “Ce sont les frères jumeaux”. Sono come gemelli questi due amori, vanno insieme. Dio ha voluto così. E, d’ altra parte, come faccio ad amare il prossimo, o meglio, certo prossimo se prima non amo Dio? Certe faccette non mi sono simpatiche. Certe persone mi hanno fatto del male, mi odiano, io devo amarle lo stesso. Riesco solo se estendo su di esse l’ amore grande che già ho verso Dio. Non meriterebbero, Signore, ma sono tue figliole, sono sorelle di Cristo anche queste persone. Come... e come, non soltanto con le parole, ma coi fatti. Faremo un esame alla fine della vita e Gesù ha già detto quali sono le domande che ci farà: avevo fame, nella persona dei miei fratelli più piccoli, mi hai dato da mangiare? Ero ammalato, prigioniero, sei venuto a visitarmi? Queste sono le domande. Qui dovremo dare le risposte. Prendendo queste parole ed altre della Bibbia, la Chiesa ha fatto due liste: sette opere di misericordia temporale e sette spirituale. Non sono complete. Bisognerebbe aggiornarle. Per esempio, la fame. Oggi, non si tratta più solo di questo o di quell’individuo. Sono popoli che hanno fame. Noi ricordiamo tutti le grandi parole del grande Papa Paolo VI: “I popoli della fame interpellano in maniera drammatica i popoli dell'opulenza. La Chiesa trasale a questo grido di angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”. E poi qui, la giustizia si unisce alla carità, perché il Papa dice anche, sempre nella Populorum Progressio: “La proprietà privata per nessuno è un diritto inalienabile ed assoluto. Nessuno ha la prerrogativa di poter usare esclusivamente dei beni in suo vantaggio oltre il bisogno, quando ci sono quelli che muoiono per non aver niente”. Sono parole gravi, insieme ad altre. Alla luce di queste parole, non solo le nazioni, ma anche noi privati, specialmente noi di Chiesa, dobbiamo chiederci: abbiamo veramente compiuto il precetto di Gesù che ha detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso” ? (Giovanni Paolo I, Udienza di Mercoledì 27 settembre 1978).

lunedì 25 febbraio 2013

A parole si dice: andiamo d’accordo! E di fatto, poi, si esige la sottomissione dell’altro.

Non è davvero una nobile impresa reclamare la pace a parole e distruggerla a fatti. Si dice di tendere a una cosa e se ne ottiene l’effetto contrario! A parole si dice: andiamo d’accordo! E di fatto, poi, si esige la sottomissione dell’altro. La pace la voglio anch’io; e non solo la desidero, ma la imploro! Ma intendo la pace di Cristo, la pace autentica, una pace senza residui di ostilità, una pace che non covi in sé la guerra; non la pace che soggioga gli avversari, ma quella che ci unisce in amicizia! Perché diamo il nome di pace alla tirannia? Perché non rendiamo a ogni cosa il suo nome appropriato? C’è odio? Allora diciamo che c’è ostilità! Solo dove c’è carità diciamo che c’è pace! Io la Chiesa non la lacero, no! e neppure mi taglio fuori dalla comunione dei padri! Fin da quand’ero in fasce, se posso esprimermi così, sono stato nutrito col latte del cattolicesimo. E penso che nessuno appartiene di più alla Chiesa di chi non è mai stato eretico. Non conosco, però, una pace che possa fare a meno della carità, o una comunione che possa prescindere dalla pace. Nel Vangelo leggiamo: Se stai offrendo la tua offerta all’altare e lì ti viene in mente che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì l’offerta davanti all’altare, e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello; poi ritorna pure a fare la tua offerta (Mt 5,23-24). Se quando non siamo in pace non possiamo fare la nostra offerta, pensa tu, a maggior ragione, se possiamo ricevere il corpo di Cristo! Che razza di coscienza è la mia se rispondo Amen dopo aver ricevuto l’eucaristia di Cristo, mentre invece dubito della carità di chi me la porge?
(Girolamo, Le Lettere, a Teofilo).

domenica 24 febbraio 2013

Questo fragile vaso continuamente tu vuoti continuamente lo riempi di vita sempre nuova.

Mi hai fatto senza fine /
questa è la tua volontà.
Questo fragile vaso /
continuamente tu vuoti /
continuamente lo riempi /
di vita sempre nuova. //
Questo piccolo flauto di canna /
hai portato per valli e colline /
attraverso esso hai soffiato /
melodie eternamente nuove. //
Quando mi sfiorano le tue mani immortali /
questo piccolo cuore si perde /
in una gioia senza confini /
e canta melodie ineffabili. /
Su queste piccole mani /
scendono i tuoi doni infiniti. /
Passano le età, e tu continui a versare, /
e ancora c'è spazio da riempire. //
(Rabindranath Tagore, Gitanjali)