mercoledì 27 febbraio 2013

c’è il rischio di rimuovere lo spazio in cui la persona può elaborare il significato della malattia

Oggi il malato è per lo più consegnato ai medici, alla medicina, alla tecnologia. Ma non basta, non può bastargli. Al malato è necessaria un’interpretazione del suo stato di paziente, e la medicina non può dargliela. La medicina si preoccupa di come curare il male, di come rimandare la morte, spesso a oltranza. Ma c’è il rischio di rimuovere lo spazio in cui la persona può elaborare il significato della malattia. Occorre sempre ricordare che la tecnica riguarda i mezzi e che, se presume di essere il fine, diventa idolo. [...] La malattia non è semplicemente un problema di medicina: è una domanda di aiuto, di amore, di senso. Gesù, nella sua vita pubblica, è venuto incontro molte volte alla domanda radicale dei malati. Se aiutato, il malato può diventare un richiamo potente per tutti, esprimendo dal proprio cuore sentimenti ignorati e disattesi, quali il coraggio, la speranza, la non rassegnata sopportazione. I malati, specialmente se cronici, verificano una rarefazione di partecipazione umana alla loro vicenda. Una vicenda che, di fatto, interpella fortemente la società civile, questa società nella quale domina la “cultura dei sani”. Il male fisico può diventare luogo di comunicazione, non di assenza di significato; luogo di comunione, non di isolamento; luogo di accoglienza dell’alterità propria e degli altri. Ancora, la sofferenza è luogo di conversione: gli occhi si spalancano a un orizzonte capace di dare senso all’esistenza terrena che conosce la malattia e la morte. Perché la nostra vita non è l’andare incontro al nulla, ma al Signore che viene.
(Carlo Maria Martini, Sul corpo).

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