sabato 21 settembre 2013

La passione è una sorta di attesa: l’attesa di ciò che altre persone faranno

La parola centrale nel racconto dell’arresto di Gesù [è]: ... fu consegnato. Alcune traduzioni dicono che Gesù fu “tradito” ma il testo greco dice “essere consegnato”. Giuda consegnò Gesù (Mc 14,10). La cosa rilevante, però, è che la stessa parola è usata non solo per Giuda, ma anche per Dio. Dio non risparmiò Gesù, ma lo consegnò a beneficio di noi tutti (cf Rom 8,32).   Così questo termine ‘essere consegnato’ gioca un ruolo centrale nella vita di Gesù. Certo, questo dramma dell’essere consegnato divide radicalmente la vita di Gesù in due. La prima parte della vita di Gesù è piena di attività. Gesù prende ogni sorta di iniziativa. Egli parla, predica, guarisce, viaggia da una cittadina all’altra. Ma immediatamente dopo che Gesù è consegnato, diventa uno a cui le cose vengono fatte. È arrestato; e condotto dal sommo sacerdote; è portato davanti a Pilato; è incoronato di spine; è inchiodato a una croce. Gli vengono fatte cose sulle quali non ha nessun controllo. Questo è il significato della passione: essere l’oggetto delle azioni di altre persone. 
[...] La passione è una sorta di attesa: l’attesa di ciò che altre persone faranno. Gesù andava a Gerusalemme ad annunciare la buona novella agli abitanti di quella città. E Gesù sapeva che li avrebbe messi davanti ad una scelta: sarai mio discepolo, o sarai il mio carnefice? Non c’è una via di mezzo. Gesù andò a Gerusalemme a mettere la gente in una situazione in cui essi dovevano dire ‘Sì’ o ‘No’. Questo è il grande dramma della passione di Gesù: doveva aspettare come la gente avrebbe risposto. Che cosa avrebbero fatto? Lo avrebbero tradito o lo avrebbero seguito? In un certo senso, la sua agonia non è semplicemente l’agonia di avvicinarsi alla morte. È anche l’agonia di dover aspettare. È l’agonia di un Dio che dipende da noi per come Dio manifesterà fino in fondo la sua presenza divina in mezzo a noi. È l’agonia del Dio che, in un modo molto misterioso, ci permette di decidere come Dio sarà Dio. (Henri Nouwen, Il sentiero dell’attesa).

venerdì 20 settembre 2013

E se trascuri totalmente i tuoi bisogni e ti occupi solo di Dio, Egli ti darà tutto quel che desideri tra i beni di questo mondo e dell’altro

Se vuoi che ciò di cui hai bisogno ti sia dato senza doverlo cercare, allontanatene e concentrati sul tuo Signore; se Dio lo vorrà, lo riceverai. E se trascuri totalmente i tuoi bisogni e ti occupi solo di Dio, Egli ti darà tutto quel che desideri tra i beni di questo mondo e dell’altro; camminerai sia nel cielo che sulla terra; e ancor più, poiché il profeta – su di lui la benedizione e la pace – ha detto, riferendo una parola del suo Signore: “Colui che il mio ricordo (dhikr) distrae dal domandare, riceverà più di coloro che domandano”.  Ascolta, o faqîr, quanto ho detto a uno dei fratelli – sia soddisfatto Dio di tutti loro -: ogni volta che m’occorreva una cosa, grande o piccola che fosse, e me ne sono distolto volgendomi al mio Signore, l’ho avuta dinanzi, per la potenza di Colui che intende e conosce. I bisogni della gente comune, noi lo vediamo, possono esser soddisfatti solo a furia di occuparsene, mentre quelli degli eletti lo sono proprio perché se ne distolgono e si concentrano su Dio. Salute a te.  (Al-‘Arabī ad-Darqāwī, Lettere di un maestro sufi).

giovedì 19 settembre 2013

O buon Gesù, abbi pietà di questo misero. Mostrati a me che ardentemente ti desidero; dammi un rimedio per la mia ferita.

O anima mia, desisti dall’amore di questo mondo e sciogliti nell’amore di Cristo, affinché ti sia sempre dolce parlare, leggere, scrivere di Lui, pensare a lui, pregarlo e sempre lodarlo. O Dio, la mia anima, consacrata a Te, desidera vederTi! Grida a te da lontano. Brucia in te e langue nel tuo amore. O amore che mai viene meno, tu mi hai vinto! O eterna dolcezza e bellezza, Tu hai ferito il mio cuore, ed ora io, vinto e ferito, soccombo. Per la gioia a malapena vivo e quasi muoio; perché non posso sopportare la dolcezza di così grande Maestà in questa carne, che dovrà imputridire. Davvero tutto il mio cuore, fissato nel desiderio di Gesù, si trasforma in un fuoco d’amore ed è incorporato in un’altra gioia e in un’altra forma. O buon Gesù, abbi pietà di questo misero. Mostrati a me che ardentemente ti desidero; dammi un rimedio per la mia ferita. Non mi sento malato, ma languo nel tuo amore. Colui che ti ama, non perde tutti completamente; colui che ti segue non è pazzo. Sii tu, allora, nel frattempo, la mia Gioia, il mio Amore, il mio Desiderio, finché potrò vedere Te, o Dio degli Dei, in Sion. La carità è davvero la più nobile delle virtù, la più eccellente e dolce, che unisce l’Amato all’amante, e eternamente sposa Cristo all’anima eletta. Essa restaura in noi l’immagine dell’altissima Trinità, e rende la creatura più simile al Creatore. O dono d’amore, quanto esso vale davanti ad ogni altra cosa, dato che contende il più alto grado agli angeli! Davvero, più amore un uomo riceve in questa vita, più grande e più alto in cielo egli sarà. O gioia singolare dell’amore eterno, che rapisce tutti i Suoi verso il cielo sopra tutte le cose terrene, legandoli con i vincoli della virtù! (Richard Rolle, The Fire of Love).

mercoledì 18 settembre 2013

Detto questo – ed è per me una convinzione non sradicabile – credo che non siamo mai, mai, mai abbandonati. Mai.


Christian Bobin poeta e scrittore intervistato dalla filosofa Marie de Solemne 
Il mio Cantico della solitudine (Avvenire, 30 luglio 2012)  

M: Nella solitudine percepisce una qualche forma di violenza a se stessi? 
C: C’è una rudezza, una brutalità della solitudine.
Questo è innegabile.
È bene che lei affronti questo argomento perché si ha tendenza a dimenticarlo troppo in fretta.
È presente perfino nei libri che leggiamo.
Mi stavo chiedendo, per esempio, quali libri mi porterei in vacanza:
forse qualche raccolta di testi dei padri della chiesa.
Apro una parentesi ma… ci si può perfino divertire con questo tipo di scritti!
Mi diverte sempre il pensarlo: ci si può divertire perfino con la verità…
Penso infatti che ci sia una verità deposta in quei libri,
in quelle esperienze mistiche e innamorate,
indissociabilmente mistiche e innamorate.
D’altronde (mi perdoni un’altra parentesi),
se si vuol capire qualcosa di quello che chiamiamo "spirituale",
molto spesso ci sarebbe da guadagnare a mettere da parte il termine "spirituale"
e a pensare, semplicemente, a ciò che succede quando ci si innamora.
Ci si accorgerebbe che molti dei fenomeni che ci paiono a volte
così lontani, così austeri, così strani nei mistici o nei religiosi,
si illuminano immediatamente se li guardiamo,
se li studiamo a partire dalla comune esperienza
dell’essere innamorati o dell’esserlo stati.
Molto semplicemente, credo che quelle persone siano degli innamorati.
Peraltro ciò che li appassiona è meno tangibile, meno visibile…
È una piccola differenza, ma nel contempo è un abisso. 
M: Lei pensa che nella nostra solitudine Dio sia seduto accanto a noi? Che ci sia una 
presenza, invisibile ma capace di manifestarsi in tanti piccoli episodi, tale da far sì 
che questa solitudine possa di colpo avere un senso? 
C: Penso che non siamo mai abbandonati. Mai, mai, mai… Mai.
Però non è qualcosa che io percepisca.
Quello che percepisco appartiene solo all’umano.
Costantemente. 
Anche se "questo" passa attraverso l’umano,
è comunque qualcosa di umano.
Come una parola che viene a me e che è terrestre;
come un’occasione che mi è data o una sorpresa che mi capita e che è anch’essa totalmente incarnata e di cui un essere reale è portatore.
Io non ho quel senso di cui parla, il senso dell’invisibile nel "quasi a portata di mano" dell’invisibile. Detto questo – ed è per me una convinzione non sradicabile –
credo che non siamo mai, mai, mai abbandonati.
Mai.

martedì 17 settembre 2013

un modo, in certi momenti, di sopportarla, di attendere che diventi buona.


Christian Bobin poeta e scrittore intervistato dalla filosofa Marie de Solemne 
Il mio Cantico della solitudine (Avvenire, 30 luglio 2012)  
M: Come si può donare la solitudine? 
C: Credo che te la donino amandoti pienamente, senza motivo,
in modo probabilmente insensato…
Se ricevi anche solo una particella, un’inezia, un frammento di un tale amore, allora tutto si apre davanti a te…
E anche se quello che ti è stato donato scompare, tutto resta aperto!
È il più grande benessere fisico, mentale e spirituale. 
Mi rifiuto di separare questi ambiti.
Anche se il linguaggio mi porta a formularli a tre riprese, con tre termini diversi,
anche se per riflettere, per scrivere, per parlare tra noi o per parlare in generale, sono obbligato a passare attraverso un termine e poi un altro, so che tutti questi aspetti non sono separabili.
La carne, lo spirito, l’anima, il cuore… li si chiami come si vuole e, d’altronde, è importante chiamarli per nome, è importante che ciascuno abbia il suo nome, ma in realtà non sono separabili.
E sono tutti irradiati da un solo sguardo, quando è uno sguardo davvero giusto, pieno di benevolenza, amante.
Da lì in avanti c’è una libertà, un respiro inimmaginabile!
Per me le parole solitudine e libertà sono perfettamente equivalenti. 
M: Per lei la solitudine è sinonimo di pace? 
C: Sì… sì, ma non è sempre facile.
Ha i suoi languori, i suoi terreni abbandonati. Per parlarne molto concretamente, addirittura in modo un po’ scherzoso faccio un esempio: io non ho la televisione, e non voglio averla, ho persino l’impressione che sia un lusso.
Vivere nella solitudine è un lusso, vivere nel silenzio è un lusso.
Dunque non desidero avere qui delle immagini, per avere la pace,
ma è tutt’altro che un’ignoranza del mondo, dato che leggo molti giornali e ascolto molto la radio. La lettura del giornale non è paragonabile a quella di un libro.
Il libro è una cosa chiusa che l’occhio, il sogno e lo spirito aprono.
Come un fiore.
C’è una sorta di metamorfosi che avviene tra il libro e il lettore.
Una cosa  che non è solo mentale, ma anche carnale.
Leggiamo anche con la mano, siamo sensibili all’apparenza, alla realtà materiale del libro.
Per esempio, l’occhio e lo spirito hanno bisogno del bianco.
Che ci sia una quantità sufficiente di bianco,
di respiro nelle pagine.
Le realtà più mentali hanno sempre un piccolo risvolto materiale.
La lettura dei libri mi occupa soprattutto la sera tardi.
Ma durante il giorno, se resto solo, ho bisogno, un bisogno infantile, senza dubbio legato a un’inquietudine o a una piccola angoscia infantile, di mangiare della carta di giornale.
Leggo molti giornali, e nei giornali leggo tutto.
Quanto sto dicendo ha un rapporto molto stretto con la solitudine,
perché è un modo, in certi momenti,
di sopportarla, di attendere che diventi buona.
Non è sempre necessariamente buona.
A volte rischia di essere pesante.
A volte rischia di essere noiosa.
Ma io non ho troppa paura della noia.
Penso sia una cosa interessante, non così malvagia come si dice.
I bambini lo sanno istintivamente.
Anche se non sanno esprimerlo facilmente, sanno che la noia non è necessariamente la cosa peggiore per loro.
Il che non significa che la solitudine, anche per me, sia poi così facile…
Se non avessi i giornali ma la televisione, guarderei la televisione.
E so benissimo che cosa preferirei guardare: qualsiasi cosa!
Per questo scopo la televisione funziona benissimo: è come infilare la testa nel frigo durante le crisi di bulimia!
C’è un vuoto in te, che non sopporti più e che ti affretti a riempire con cibi più o meno indigesti. Spesso riempiamo in fretta questo vuoto, questo buco, questa attesa nascente, mentre essa avrebbe 
bisogno ancora di un po’ di tempo per poterci dire quello che ha da dirci.
Noi invece cerchiamo di colmarla immediatamente.
È come una domanda che ci viene posta e 
cerchiamo di fermare.
Non rispondiamo… cerchiamo di ucciderla.
Ingerendo immagini o fogli di giornale.
Del resto, per essere precisi, preferisco alcuni giornali ad altri, perché so che sono i più lunghi da leggere, che contengono più cose da leggere. Per esempio, leggo articoli molto dettagliati di tre o quattro pagine sull’economia, o sulla tappa del Giro di Francia…

lunedì 16 settembre 2013

Curiosamente, sono state alcune persone, alcuni incontri, a donarmi la solitudine. È un dono, che mi è stato fatto


Christian Bobin poeta e scrittore intervistato dalla filosofa Marie de Solemne 
Il mio Cantico della solitudine (Avvenire, 30 luglio 2012)  
M: Un tempo il solitario veniva chiamato recluso, oggi si parla più volentieri di escluso…
Pare che le nostre solitudini contemporanee patiscano una chiara perdita di senso.
Pensa che questa perdita condizioni il disagio che genera la solitudine? 
C: Credo di non potere generalizzare a partire da quello che vivo io…
Quello che potrei dirle della solitudine, potrei dirlo anche dell’amore e di molte altre cose.
Sono tutti aspetti contigui che interagiscono:
è difficile isolarne uno.
Sono tutti atomi legati, come quelli che compongono l’aria che respiriamo…
D’altronde tutte queste sono realtà aiutano a respirare, offrono la più ampia respirazione possibile. L’amore, la solitudine, la scrittura, il canto, il gioco:
mi piace, per esempio, fare girare come trottole sulla pagina queste realtà perché sento che nella mia stessa vita girano l’una sull’altra, l’una nell’altra.
Tuttavia, che cosa potrei mai dire della solitudine degli altri?
Nonostante mi sia già capitato di scrivere al riguardo,
riconosco di avere personalmente una tendenza ad andare a volte troppo in fretta verso il sublime, verso il celeste.
Devo quindi precisare che non ho scelto di vivere come vivo, anche se ne sono felice, e anche se mi percepisco vivo in questo tipo di vita, un po’ strano e, per certi aspetti, un po’ ritirato…
Non ho scelto questa vita e devo persino aggiungere, è un pensiero che mi viene spesso e che mi fa sorridere, che, con molta verosimiglianza, sarei stato un discreto malato di autismo!  
M: L’amore e la solitudine non sono poi così distanti… 
C: Così poco distanti che uno dei più bei titoli di  poesia è quello di Paul Éluard: 
L’amore la solitudine. Non sono separati nemmeno da una virgola…
È molto giusto perché sono come i due occhi di uno stesso volto.
Né separati né separabili. Ma io le dico questo oggi, a quarantacinque anni…
Mi ci son voluti molti anni, molto tempo, per arrivare a capire qualcosa di queste realtà. È avvenuto a poco a poco, grazie a occasioni, circostanze della vita, incontri.
Curiosamente, sono state alcune persone, alcuni incontri, a donarmi la solitudine.
È un dono, che mi è stato fatto. Come il resto, d’altronde…
Non mi appartiene, è qualcosa che mi è stato regalato. 

domenica 15 settembre 2013

La solitudine che amo è un dono che mi è stato fatto dalla vita.


Christian Bobin poeta e scrittore intervistato dalla filosofa Marie de Solemne 
Il mio Cantico della solitudine (Avvenire, 30 luglio 2012)  
M: Solitudine e isolamento sono due termini che non solo sono normalmente confusi da molti, ma per i quali gli stessi dizionari non riportano praticamente differenze di significato.
Che sfumature le suggeriscono questi due termini? 
C: La solitudine che amo è un dono che mi è stato fatto dalla vita.
Non c’è scelta in questo. Come del resto non ho scelto di essere scrittore. In verità ho scelto pochissime cose.
Le mie scelte sono state soprattutto dei rifiuti.
Si è trattato di dire non voglio questo o quell’altro, più che di volere qualcosa. Allora, nella solitudine di cui stiamo parlando adesso non c’è più isolamento.
Non credo di essere un orso, ma ho un lato selvatico: posso, e mi piace, restare ore e giorni interi senza vedere nessuno. 
Ebbene, percepisco la maggior parte di quelle ore e di quei giorni come ore e giorni di pienezza in cui mi sento legato proprio a tutto!  
M: Una solitudine creativa e feconda? 
C: Esattamente.