mercoledì 18 settembre 2013

Detto questo – ed è per me una convinzione non sradicabile – credo che non siamo mai, mai, mai abbandonati. Mai.


Christian Bobin poeta e scrittore intervistato dalla filosofa Marie de Solemne 
Il mio Cantico della solitudine (Avvenire, 30 luglio 2012)  

M: Nella solitudine percepisce una qualche forma di violenza a se stessi? 
C: C’è una rudezza, una brutalità della solitudine.
Questo è innegabile.
È bene che lei affronti questo argomento perché si ha tendenza a dimenticarlo troppo in fretta.
È presente perfino nei libri che leggiamo.
Mi stavo chiedendo, per esempio, quali libri mi porterei in vacanza:
forse qualche raccolta di testi dei padri della chiesa.
Apro una parentesi ma… ci si può perfino divertire con questo tipo di scritti!
Mi diverte sempre il pensarlo: ci si può divertire perfino con la verità…
Penso infatti che ci sia una verità deposta in quei libri,
in quelle esperienze mistiche e innamorate,
indissociabilmente mistiche e innamorate.
D’altronde (mi perdoni un’altra parentesi),
se si vuol capire qualcosa di quello che chiamiamo "spirituale",
molto spesso ci sarebbe da guadagnare a mettere da parte il termine "spirituale"
e a pensare, semplicemente, a ciò che succede quando ci si innamora.
Ci si accorgerebbe che molti dei fenomeni che ci paiono a volte
così lontani, così austeri, così strani nei mistici o nei religiosi,
si illuminano immediatamente se li guardiamo,
se li studiamo a partire dalla comune esperienza
dell’essere innamorati o dell’esserlo stati.
Molto semplicemente, credo che quelle persone siano degli innamorati.
Peraltro ciò che li appassiona è meno tangibile, meno visibile…
È una piccola differenza, ma nel contempo è un abisso. 
M: Lei pensa che nella nostra solitudine Dio sia seduto accanto a noi? Che ci sia una 
presenza, invisibile ma capace di manifestarsi in tanti piccoli episodi, tale da far sì 
che questa solitudine possa di colpo avere un senso? 
C: Penso che non siamo mai abbandonati. Mai, mai, mai… Mai.
Però non è qualcosa che io percepisca.
Quello che percepisco appartiene solo all’umano.
Costantemente. 
Anche se "questo" passa attraverso l’umano,
è comunque qualcosa di umano.
Come una parola che viene a me e che è terrestre;
come un’occasione che mi è data o una sorpresa che mi capita e che è anch’essa totalmente incarnata e di cui un essere reale è portatore.
Io non ho quel senso di cui parla, il senso dell’invisibile nel "quasi a portata di mano" dell’invisibile. Detto questo – ed è per me una convinzione non sradicabile –
credo che non siamo mai, mai, mai abbandonati.
Mai.

Nessun commento:

Posta un commento