sabato 5 ottobre 2013

la vita è sempre presente all’appuntamento


Christiane Singer, “Dove corri? Non sai che il cielo è in te?”, edizioni Servitium,
“Non so se ho colpito colui al quale mi rivolgevo;
poco importa, dato che il messaggio, anche quando non giunge a chi si è mirato,
arriva sempre a qualche destinazione.
Nelle faccende di cuore e di spirito,
ci si rivolge alla persona che si ha davanti
e, di riflesso, è un altro che riceve il messaggio in pieno cuore:
questo conta.
…La vita si rivela solo a coloro i cui sensi sono vigilanti e che si spingono in avanti,  come felini tesi, verso il minimo segnale.
Tutto sulla terra ci interpella, ci chiama,
ma così lievemente che passiamo mille volte senza vedere alcunché.
Camminiamo su dei gioielli senza notarli.
I sensi ci restituiscono il senso.
Quando l’istante scarica la sua linfa,
la vita è sempre presente all’appuntamento” .

venerdì 4 ottobre 2013

Francesco chiedeva al Signore, anziché di liberarli dalla povertà, di dar loro la gioia della povertà stessa. Giacché, se la povertà s’accompagna con la gioia, svaniscono la cupidigia e la bramosia


Oggi San francesco lascio scorrere Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
(Non bisogna disprezzare nulla - cap. 9)
per stare in compagnia del Santo e lodare il Signore per quello che lui ha fatto per riparare  la Chiesa a gloria di Dio 

Tutti i frati dell’eremo si erano accorti che Francesco aveva finalmente riacquistato la pace. Tuttavia, essi sentivano che questa pace non aveva eliminato la sofferenza dal cuore del Padre: l’aveva soltanto trasfigurata.
Francesco non appariva più come un uomo sopraffatto.
Il suo viso s’era di nuovo aperto e schiarito.
Nel corso della giornata lo si sentiva spesso cantare.
Era una gran gioia per i frati l’udirne la voce.
Ma, ai loro occhi Francesco appariva l’uomo reduce dagli abissi.
Egli s’era avvicinato a Dio fin là dove un uomo può avanzare senza morirne. Aveva lottato con l’Angelo, tutto solo nel cuor della notte.
L’aveva vinto.
Ora Francesco tornava ai suoi frati, pur segnato dal marchio misterioso dell’impari lotta sostenuta. La luce del suo sguardo, pur avendo cancellato sul suo volto ogni traccia d’ombra, non vi aveva disperso quella espressione grave che rivelava un’anima profonda che Dio stesso aveva scavato per esservi contenuto.
Francesco aveva ripreso le sue meditazioni solitarie.
Nei sentieri sotto i pini la luce viva della primavera si attenuava e si faceva dolcissima. Egli amava venirci per raccogliersi e per pregare. Non diceva nulla, o quasi nulla.
La sua preghiera non era fatta di formule.
Egli ascoltava le voci della natura, e si limitava a coglierne ogni sfumatura.
Sembrava un cacciatore alla posta.
Trascorreva, così, lunghe ore d’attesa, attento ai minimi moti degli animali é delle cose circostanti, sempre pronto a cogliervi il segno d’una presenza. Il canto d’un uccello, il frullo delle foglie, i balzi d’uno scoiattolo ed il lento e silenzioso travaglio della vita non gli parlavano un linguaggio misterioso e divino? Era necessario saper ascoltare e capire, senza rifiutare nulla, con umiltà e devozione, imponendo silenzio alle proprie voci personali.
Il vento soffiava piano dentro i pini. Se ne sprigionava una bella canzone. E Francesco ascoltava la parola del vento che era divenuto il suo migliore amico.
Non era, forse, anche il vento pellegrino e straniero in terra, senza casa, sempre in cammino e sempre labile? Povero fra i poveri, il vento portava nella sua fuga i semi fecondi del creato. Donava tutto del suo. Seminava e passava. Né sapeva dove i semi cadessero, né prevedeva i frutti del suo lavoro. Era contento solo di seminare e seminava generosamente. Distaccato da tutto, il vento era libero come lo spazio sconfinato. Soffiava dove voleva, come lo Spirito del Signore secondo la Santa Scrittura.
E mentre Francesco ascoltava la voce del vento, sentiva sempre più forte il desiderio di partecipare allo Spirito del Signore e alla sua attività divina. E questo desiderio, invadendolo, lo colmava d’un immenso senso di pace.
Tutte le aspirazioni dell’anima sua si placavano al solo suo trasfondersi in questo desiderio supremo.

Una sera, tornando dalla questua, frate Silvestro disse a Francesco d’essersi attardato in una casa colonica a consolare una povera mamma il cui piccino era molto malato. Il bambino non ingeriva più alcun cibo, vomitava quasi tutto e deperiva a vista d’occhio. La madre vedeva il piccolo consumarsi di giorno in giorno e non poteva far nulla per salvarlo. Era per lei un vero e proprio strazio. Essa aveva già perduto un figlio due anni prima in condizioni analoghe. Era sfiduciata la povera donna e piangeva. Faceva pena il vederla ridotta in quello stato.

- Andrò a visitare quella povera donna - disse Francesco con semplicità.
E l’indomani mattina partì tutto solo attraverso i boschi e i campi. La casetta faceva parte di un borgo colonico. La si riconosceva facilmente. Aveva un tetto di calce ed era, secondo il racconto di frate Silvestro, la più povera e miserevole abitazione del borgo.
Nella piccola corte invasa dalla luce del sole un cane affamato accolse Francesco e gli si fece incontro abbaiando fino a leccargli la mano con l’umido muso. La porta del casolare era aperta. Francesco varcò la soglia rivolgendo ai presenti il suo solito saluto appreso dal Signore: «Sia pace a questa casa». Una figura di donna emerse dal buio del vano e si avvicinò alla porta d’entrata. Dai tratti del volto Francesco non ebbe difficoltà a riconoscere la madre del bambino malato. Il suo aspetto ancor giovanile, e pur tanto afflitto e sfinito, non lasciava dubbi in proposito: era lei la madre.
- Ho saputo da frate Silvestro - disse Francesco - che avete un bambino malato, e sono venuto a visitarlo.
Voi siete, senza dubbio, frate Francesco ribatté la donna il cui volto s’era di colpo disteso. - Frate Silvestro mi ha parlato di voi. Siate il benvenuto, Padre. Entrate, ve ne prego.
Essa lo condusse, senz’aggiunger parola, all’altra estremità del vano, presso la culla del suo piccino. Questi teneva gli occhi ben aperti, ma il suo visetto cereo non mostrava alcun segno di vita. Francesco si chinò su di lui con gesto materno e cercò con la sua mimica di farlo sorridere. Ma il bambino non sorrise. I suoi occhi grandi infossati nel cavo delle orbite profonde, erano cerchiati di livide occhiaie.
- Il buon Dio me lo toglierà, anche questo? chiese la donna al colmo del dolore. - Sarebbe il secondo nel giro di due anni. È straziante, Padre.
Francesco taceva.
Egli ben capiva il dolore di quella madre. Lo capiva benissimo, giacché anche lui da due mesi risentiva quel medesimo dolore. Sapeva lui pure cosa significasse perdere dei figli, e vederli deperire di giorno in giorno. Pertanto, la pena di quella donna lo colpiva e lo sconvolgeva fin nel profondo del cuore.
- Povera madre - soggiunse dopo un breve silenzio - il vostro stato è duro, molto duro. Ma non dovete disperare. Potete perdere tutto, ma non la fiducia.
Egli non parlava a fior di labbra, senza convinzione, solo perché sentiva di dover dire qualcosa. Francesco dava voce con le sue parole al suo profondo convincimento.
E la donna non mancò di convincersene. Altri le avevan senza dubbio parlato in quei termini, ma non in quel modo. L’impressione che essa ne ricevette, le riuscì del tutto nuova. Le parole di Francesco le giunsero da ben altra e diversa profondità. Egli doveva aver molto sofferto e doveva, forse, aver perduto tutto, per poter parlare con quell’accento tanto sincero e grave. Egli doveva aver superato la disperazione, doveva aver ritrovato la terra ferma, la realtà profonda che non inganna mai.
Accanto alla culla, una finestra s’apriva sul giardinetto dietro la casa. Seduto all’ombra d’un melo fiorito, vi si scorgeva il nonno che raccontava una storia ad un bambino seduto sulle sue ginocchia. Accanto, nell’erba una bambina giocava con un gattino nero.
- Sono i vostri due figli maggiori col loro nonno? - chiese Francesco, guardando fuori dalla finestra.
- Sì, sono i miei due maggiori - rispose la madre.
- Sembrano in buona salute - osservò Francesco.
- Sì - aggiunse la donna, torcendo un poco il viso. - Stanno bene di salute. Non posso lamentarmene, grazie a Dio.
- Sì, grazie a Dio - riprese Francesco. Avete ragione di ringraziare il Signore.
- È vero - obiettò la donna. - Ma se anche ne avessi dieci, tutti sani e pieni di vita, essi non potrebbero mai rimpiazzare il figlio che ho perduto. Un figlio non si rimpiazza. Egli è sempre un essere unico. E quando un figlio muore, tutti gli altri insieme, pur numerosi, non riescono a colmare il vuoto. E quanto più se ne ha sofferto, tanto più lo si ama e lo si rimpiange.
Ci fu una pausa di silenzio. Tra le tegole del tetto si udiva la rapida corsa d’un topo. Nel giardinetto il nonno continuava a raccontare la sua fiaba. Pareva ch’egli fosse giunto al momento più patetico del suo racconto. La sua voce si faceva più grave e più misteriosa. Il suo viso assumeva un’aria drammatica. La bambina non si curava più del gatto; e, avvicinatasi al nonno, lo supplicava con voce carezzevole:
- Ricomincia, nonno, ricomincia da capo. Non ho sentito bene il principio della storia,
- Lascialo raccontare - replicava il fratello, respingendola col braccio.
Ed il nonno, fingendo di non sentire, proseguiva la sua storia imperturbabile.
Nella culla il piccino non teneva più gli occhi aperti. Francesco -alzò la mano e lo benedisse. Quindi, si ritirò in punta di piedi.
- Lasciamolo dormire - disse alla madre. Tornerò presto a rivederlo.
- Mio marito sta lavorando nei campi - disse la donna. - Rincaserà non prima di notte. Ma voi andate a salutare il nonno prima di partire.
- No, lasciatelo stare, ve ne prego - replicò Francesco. - Non bisogna disturbarlo ora. Si guasterebbe la gioia dei bambini. Essi hanno bisogno di sentire le fiabe raccontate dal nonno. Un’infanzia senza fiabe è un mattino senza sole, o anche una giovane pianta senza radici. Io ricordo ancora e sempre le storie che nostra madre ci raccontava quando s’era bambini. Nostra madre era d’origine provenzale e conosceva bene le leggende di Francia. Nelle lunghe sere d’inverno, prima di coricarci, noi ci si stringeva intorno a lei e la si ascoltava con un piacere misto ad un po’ di paura. Essa ci raccontava le meravigliose storie della foresta di Brocéliande dove abitavano il mago Merlino e la fata Viviana. Altre volte essa ci parlava dell’Imperatore Carlo, dalla barba fiorita e dei suoi meravigliosi cavalieri Orlando e Oliviero. E noi ci figuravamo, come in sogno, quel paesaggio bello e dolce dove l’imperatore passava a cavallo con la scorta dei suoi paladini. Tutti questi ricordi mi sono rimasti bene impressi nella mente. Sento che fan parte di me. Talvolta li sento cantare dentro di me. Dio parla anche per mezzo di queste umili voci che vengono dalla terra. Son voci, queste, che non dobbiamo disprezzare. Non c’è nulla che vada disprezzato. Neppure le fate. Esse sono figlie di Dio.
La donna ascoltava, fissando il volto grave e dolce di Francesco. Essa era soprattutto colpita dalla immensa bontà che traspariva nelle parole di Francesco e che, raggiando dalla sua persona, si estendeva a tutte le cose. Mentre essa lo guardava e lo ascoltava, il mondo assumeva ai suoi occhi ben altro senso e peso. Il mondo le si faceva vasto e profondo, pieno di recondite armonie. Non v’era nulla di superfluo e tutto appariva regolato e radicato in una comune bontà originale. Il mondo le appariva degno di fiducia. Dio v’era presente per ogni dove, perfino nei racconti e nelle meravigliose storie di fate.
- Dovete tornare a trovarci una di queste sere disse la donna.
- Tornerò presto - rispose Francesco. - Arrivederci.

Francesco riprese la strada dei boschi e dei campi. Egli portava ora nel suo cuore il dolore di quella povera madre. Giunto che fu all’eremo, si mise a pregare mentre la notte calava. Era solito farlo. Ma quella sera il suo pensiero non si scostava da quella povera famiglia visitata poc’anzi. Francesco chiedeva al Signore, anziché di liberarli dalla povertà, di dar loro la gioia della povertà stessa. Giacché, se la povertà s’accompagna con la gioia, svaniscono la cupidigia e la bramosia. Egli rivedeva quella povera donna estenuata e scoraggiata che s’aspettava da lui un po’ d’aiuto. Francesco immaginava anche tutte le altre madri sfinite e desolate. Il dolore del mondo gli apparve sconfinato e senza fondo, come la notte.

giovedì 3 ottobre 2013

Tutta la nostra storia europea, sia sul piano delle idee sia sul piano sociale e politico, è una storia di ostracismo e di persecuzione, di estradizione e di esclusione. Dovunque si annodano nel tessuto sociale questi vincoli di fissazione, di proliferazione, queste ulcere cancerogene.


Conferenza pronunziata all'Università' di Còrdoba nel marzo 1989, durante un colloquio che riuniva sociologi, politologi e filosofi sul tema: "Il futuro dell'uomo, un nuovo umanesimo".

In questo sistema di falsa chiarezza riduzionista, ogni complessità è percepita come un'ingiuria.
Non c'è posto per il riverbero, per la molteplicità degli approcci e dei livelli, per la complementarietà delle visioni. Lo spirito, esattamente come la natura nel suo complesso, si trova minacciato dal crollo del campo vibratorio, dall'entropia.
Ogni teoria è subito colpita dal virus mortale del monopolio e tende a imporsi ferocemente come esclusiva, inconciliabile.
Tutta la nostra storia europea, sia sul piano delle idee sia sul piano sociale e politico, è una storia di ostracismo e di persecuzione, di estradizione e di esclusione. Dovunque si annodano nel tessuto sociale questi vincoli di fissazione, di proliferazione, queste ulcere cancerogene.

Sarebbe ora di non sostituire più una opzione con un'altra, di riprendere gusto a quella perpetua instabilità, all'infinita fluttuazione delle apparenze, a quel transfert permanente di energie e di informazioni, a quel gioco di echi e di risonanze di cui vibrano la materia creata e lo spirito: sono un tutto unico.
Sarebbe ora di ricordarci di ciò che sappiamo nel più profondo di noi stessi: che le antinomie compongono una stessa realtà, le due facce della stessa medaglia, prodotta da una sola e medesima colata! U mondo è il luogo dell'alleanza, dove si celebra l'incontro delle antinomie, dove il fuoco e il ghiaccio, il dolce e l'amaro, il giorno e la notte, la festa e il lutto, la vita e la morte, l'uomo e la donna festeggiano insieme i loro misteri.

Molti lo sospetteranno già: la rivoluzione di cui stiamo parlando si gioca in ciascuno di noi. Non si tratta di un fenomeno di massa che bene o male (e il più delle volte male!) trasforma la vita di ognuno, ma di una trasformazione della coscienza che, a partire da ciascuno di noi, risplenderà sul mondo che ci circonda.

A tale proposito, non resisto al piacere di raccontarvi una storia meravigliosa della tradizione sufica.

Un vecchio saggio viene interrogato sull'arco della propria esistenza fino ad oggi. Ed ecco come ne riassume le tre tappe: 
"A vent'anni conoscevo solo una preghiera: "Dio mio, aiutami a cambiare questo mondo così insopportabile, così spietato". E per vent'anni mi sono battuto come una belva per costatare in fin dei conti che non era cambiato niente. 
A quarant'anni, conoscevo una sola preghiera: "Dio mio, aiutami a cambiare mia moglie, i miei parenti e i miei figli"! Per vent'anni ho lottato come una belva per costatare in fin dei conti che non era cambiato niente. 
Ora sono un vecchio e conosco una sola preghiera: "Dio mio, aiutami a cambiare me stesso"; ed ecco che il mondo cambia intorno a me!".

Ma intendiamoci! Non si tratta di rinunziare all'azione, ma al contrario di scoprire un'azione nuova in uno spirito libero, libero dalle scorie del potere, del voler apparire, delle vanità individuali, delle rivalità, dei regolamenti di conti! Un'azione libera nella gioia di servire!

"Ho fatto molto" diceva Platone "se sono riuscito a risvegliare in chi mi ascolta la memoria di ciò che già sa".

La reminiscenza che qui si tratta di risvegliare è quella della nostra doppia appartenenza.

Noi ci comportiamo su questa terra da amnesici - o, peggio, come un ubriaco che mette a soqquadro l'albergo che sta lasciando perché è sicuro che non ci tornerà più. Abbiamo dimenticato la nostra vera identità, che ci lega ai due principi del creato: il vuoto e il pieno, il visibile e l'invisibile, il dicibile e l'indicibile, il pensabile e l'impensabile, il palpabile e l'impalpabile. La via terrena e la via interiore! "Formare, creare, inventare il mondo, da un lato e, dall'altro, progredire nel cammino interiore" (K.G. Dürckheim).

Azione - contemplazione. Il nostro yang e il nostro yin dell'inizio.

Privato dell'una o dell'altra di queste dimensioni, l'essere umano è selvaggiamente mutilato.

Per questo la sfida della nostra epoca non è né una sfida economica, né una sfida politica, né una sfida scientifica, è una sfida di un ordine ad un tempo psichico e mistico.

Se in questo mondo, in cui minaccia di sparire, non risvegliamo in noi questa dimensione d'eternità, di contemplazione, di accoglienza, la dimensione femminile e sacra in noi, se non creiamo queste oasi di silenzio dove la frenesia si trova sospesa, noi avremo dimenticato la nostra vocazione di uomini e di donne.

In questo rilancio di prodotti, in questa pletora di beni, in questo eccesso di parole, di slogan, di ideologie che ci soffocano, non abbiamo bisogno di una nuova teoria, né di un altro messianismo, né di una nuova ideologia della beneficenza, e nemmeno - oso dirlo! - di un nuovo umanesimo! Abbiamo soltanto bisogno di un silenzio, di una pausa, di un'amnistia: tempo di riallacciare rapporti con la nostra identità autentica.

Christiane Singer

(in Del buon uso delle crisi, 1999, pp. 21-31)

mercoledì 2 ottobre 2013

Il disprezzo della legge del creato provoca l'effetto contrario: volendo aver tutto ad un tempo e sempre, ci priviamo della vera intensità. "Rapinando" tutto, derubiamo a noi stessi.


Conferenza pronunziata all'Università' di Còrdoba nel marzo 1989, durante un colloquio che riuniva sociologi, politologi e filosofi sul tema: "Il futuro dell'uomo, un nuovo umanesimo".

Completamente dimenticato l'ammonimento dell'Ecclesiaste (Qoèlet 3, 1-5):

Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

Il disprezzo della legge del creato provoca l'effetto contrario: volendo aver tutto ad un tempo e sempre, ci priviamo della vera intensità. "Rapinando" tutto, derubiamo a noi stessi.

Niente è più lugubre di questo martedì grasso a perpetua memoria della nostra società dei consumi - questa indigestione ininterrotta che nessuna quaresima può alleviare!
Che cosa sa del sapore di un frutto o del pane colui che non ha mai praticato il digiuno?
Che cosa sa dell'amore colui che si abbandona alle eccitazioni così cupa-mente ripetitive della genitalità per arrivare a più o meno lunga scadenza ai surrogati della sregolatezza e della violenza?

È lugubre e cupa questa nuova galera chiamata "libertà sessuale".
Che sa dell'amore colui che strappa la più sottile dimensione dell'essere alla complessità del rituale amoroso, ai prolegomeni del desiderio e dell'attesa, allo sfumato dell'immaginario, alle alternanze di una castità decisa?
È perdente colui che sostituisce al luminoso regno dell'éros la pornografia dagli occhi morti.

E la malattia?
Quanti di noi conoscono ancora la sua dimensione iniziatica e l'accolgono con rispetto, pazienza, disposti ad un ascolto profondo, invece di aggredirla fin dall'inizio con analgesici e di assestarle tutti i colpi di calcio e di randello che offre l'ampia tavolozza della terapia chimica?

E la vecchiaia?
Trattata come un diverticolo spiacevole di cui il progresso della scienza ci promette presto l'asportazione. Odiata, disprezzata come la morte, perché come questa appartiene al regno dello yin, della disponibilità, dell'apertura, dell'accoglienza, del vuoto, della non frenesia, del non rendimento - in una parola al regno dell'anima.

Lo sconvolgimento dei ritmi, questa ignoranza delle fluttuazioni e dei ritmi ondulatori che costituiscono l'universo, rende la nostra società così temibile per coloro che la compongono, per se stessa e per il nostro pianeta.

Se cerchiamo l'origine di questo sconvolgimento dei ritmi nella nostra società industriale progredita della fine del XX secolo, ne troveremo i germi nelle nostre abitudini di pensiero. Le nostre cerebralità occidentali non conoscono più altro che il movimento fatale del bilanciere: o / o. Tutto il nostro pensiero è oggi atrofizzato. I grandi artisti del Rinascimento potevano essere ad un tempo tecnici e alchimisti, storici e mitologi, scienziati e mistici, potevano alimentarsi della coesistenza dei principi che, per noi poveri spiriti contemporanei, si escludono. È o / o!

Solo la molteplicità degli accessi al reale ci può dare qualche idea del suo splendore. Ma di ogni diamante noi vogliamo vedere solo una faccetta! Cioè: l'autoritarismo o la permissività senza bussola, la scienza o la poesia divinatrice, la logica serrata o l'intuizione, il materialismo cieco o la visione mistica, il profano o il sacro, ecc.

Il nostro modello è ancora quel giovane di ventitré anni chiamato Cartesio e la sua improvvisa illuminazione del 10 novembre 1619 - non un'illuminazione religiosa (la società in cui egli vive è profondamente religiosa), ma un'illuminazione razionalista, se così posso dire -: egli scopre i principi di "un metodo universale per la ricerca della verità" e decide di fare tabula rasa di tutte le conoscenze precedenti, di ricostituire l'edificio del sapere con la sola luce della ratio.
Che superba iniziativa e come ha ragione, quel giovane stanco dell'ingarbugliamento scolastico, della palude concettuale in cui si era smarrito l'aristotelismo, come ha ragione di voler fare tabula rasa!
Non c'è teoria, non c'è filosofia, non c'è Weltanschauung che non abbia il suo tempo biologico, il suo tempo di energia e di splendore - e il suo tempo di ramo secco. Ogni impulso benefico, generatore di vita e di rinnovamento si trasforma, se non è continuamente rinnovellato, riinnestato al circuito principale del pensiero vivo, in una massa amorfa e ingombrante. Così capitò alla scolastica all'inizio del secolo XVII.

Vedendo aprirsi davanti agli occhi le prospettive inebrianti di una scienza nuova, il giovane Cartesio promette alla vergine Maria un pellegrinaggio a Notre-Dame-de-la-Lorette, che adempirà due anni dopo. E così egli è l'ultimo a partecipare ai due regni: a gustare le dolcezze del precartesianesimo e a inebriarsi dell'aria vivificante della ratio tutta nuova! (Ricordiamo per inciso che l'altro motore del moderno spirito scientifico, citato altrettanto spesso di Cartesio, Newton, aveva anche lui familiarità con i due mondi e siglava ogni foglio dei suoi manoscritti con la sigla S.D.G.: Soli Deo Gloria. Grande specialista della qabbalah, che studiò per vent'anni, non scriveva all'inizio di ogni sua ricerca - come si può verificare nella Royal Academy ofScience a Londra -: "Questa è solo un'infima parte degli Ordinamenti del Cosmo così come li ho potuti calcolare a partire dalle strutture fondamentali rivelate dalla Torah"?)

In tre secoli e mezzo, l'aria vivificante apportata da questo spirito nuovo si è trasformata in una tenda ad ossigeno in una delle sale di rianimazione che simboleggiano così bene la nostra epoca e dove il gran trionfo tecnologico consiste nel mantenere in vita a tutti i costi sia i morti soggetti a dilazione sia le ideologie antiquate del materialismo assoluto.

Abbandonando la terra nutrice della fede, quell'humus etimologicamente comune all'umiltà e all'umorismo, lo spirito umano, ormai pesante e testardo, si arrampica sull'albero della conoscenza, trasformato da un bel po' di tempo in traliccio ad alta tensione.

O/o - oscillazione fatale del fatale bilanciere! Perché è così difficile per la nostra civiltà comprendere la natura del Reale - il suo movimento fluttuante, la sua incessante metamorfosi, quel tessuto di correlazioni e di complementarietà che lo costituiscono?

E inutile che la scienza contemporanea e soprattutto la fisica nucleare, dopo Werner Heisenberg e Niels Bohr, ci diano conferma di questa natura del reale attestata dagli antichi sistemi cosmologici e religiosi: noi persistiamo nelle nostre società a inforcare gli occhiali riduttivi di un positivismo miope all'Auguste Comte.

Christiane Singer

(in Del buon uso delle crisi, 1999, pp. 21-31)

martedì 1 ottobre 2013

i progetti dello spirito si levano tanto più in alto quanto più sono vuoti e leggeri...

Conferenza pronunziata all'Università' di Còrdoba nel marzo 1989, durante un colloquio che riuniva sociologi, politologi e filosofi sul tema: "Il futuro dell'uomo, un nuovo umanesimo".

Le donne - dice un proverbio cinese sostengono la metà del cielo. Abbiamo perciò a che fare con un problema elementare di statica: se la metà delle colonne che sostengono il peso venisse a mancare, la volta celeste crollerebbe.

Valéry, in Eupalinos ou l’architecte, deplora che le audaci costruzioni dell'intelletto non dispongano di quel piccolo correttivo così invidiabile che ha l'architettura: concepiti senza rispettare le leggi della statica, i suoi edifici crollano, mentre i progetti dello spirito si levano tanto più in alto quanto più sono vuoti e leggeri...

Se il nostro congresso si può accontentare di una metà delle colonne senza che la volta si abbatta sulle nostre teste, l'umanità non potrà farlo. E certo qui non sono solo io a rallegrarmene!

Vorrei invitarvi a gettare uno sguardo al di sopra della barriera ontologica sulla nostra società in questa fine di secolo ansimante.

La prima cosa che caratterizza un organismo vivo sotto il sole - e una società è un organismo - è la sua respirazione, questo scambio costante che unisce l'uno e il tutto, la particella e l'insieme, paradigma di tutti i ritmi, apparentemente binari (inspirazione-espirazione), ma quaternari se si considerano le apnee, le due pose fluttuanti tra i poli: accogliere-restituire; prendere - donare; nascere - morire; giorno - notte. Questo ritmo della respirazione è quello inerente ad ogni vita sulla terra - la pulsazione del vivente.

Ora, quel che colpisce a prima vista è che la respirazione di questa società è malata. La sua aritmia è di natura asmatica. Essa pompa e aspira rumorosamente, ma non restituisce più quell'aria di cui si è gonfiata, per paura di esserne privata. E così soffoca a poco a poco, non per mancanza ma per eccesso. Tirando a sé tutta la coperta, muore di troppo, di sovrappiù. Giace sotto una montagna di prodotti e di detriti e continua ad accumulare tutti i beni, ad aspirare a tutte le risorse del mondo. Crudele sindrome del mondo civilizzato!

(Uno pneumologo mi faceva notare, poco tempo fa, una differenza essenziale tra un occidentale e un orientale: pregati tutti e due di inspirare profondamente, reagiranno in maniera diametralmente opposta: il primo inspirerà subito con vigore, mentre il secondo vuoterà anzitutto i polmoni dell'aria che contenevano: seguirà naturalmente un'inspirazione naturale e profonda).

La nostra società non sa espirare, restituire, lasciare la presa, badare alle pause dell'apnea. Mossa da un'avidità insaziabile, spinta in avanti come una trottola, sta per inghiottire tutto. L'accecamento e l'accelerazione incessante formano a dir poco un duetto spaventoso.

A ogni livello si riproduce questo stesso schema di comportamento, che privilegia l'avere, la soddisfazione immediata dei desideri, la precipitazione, la rudezza, a detrimento dei loro corollari: l'essere, puro e semplice, la disponibilità, la pazienza, la crescita lenta, la dimensione contemplativa. Lo yang distrugge lo yin (ricordiamo che dall'equilibrio di queste due energie dipende l'equilibrio del mondo nella cosmogonia cinese). Distruggendo lo yin in tutte le sue manifestazioni metafisiche e sociali, lo yang si distrugge da sé - poiché queste due forze sono i due aspetti di una sola e medesima realtà - flusso e riflusso dello stesso oceano - recto e verso di uno stesso foglio.

Ne consegue che, nella nostra società, soltanto una parte della realtà è tenuta in considerazione, esaltata, ipertrofizzata, gonfiata al silicone: il piacere, la salute, la giovinezza, la sicurezza, l'agio, la velocità. L'altra dimensione, benché inerente alla prima, è occultata, atrofizzata, negata, rigettata: la malattia, la sofferenza, la morte, lo sforzo, l'addestramento, la responsabilità, la vecchiaia.

Christiane Singer

(in Del buon uso delle crisi, 1999, pp. 21-31)

lunedì 30 settembre 2013

è una mano dolce e materna, che conosce, conforta, ripara senza trauma


Proponiamo la prima pagina del testo
Il corpo alla prova o della divina tenerezza di Maurice Bellet

La divina tenerezza è pace, profonda pace, pace misericordiosa, acquietamento è una mano dolce e materna, che conosce, conforta, ripara senza trauma, che rimette al posto giusto è uno sguardo simile a quello della madre sul figlio che nasce è orecchio attento è discreto, che nulla spaventa, non giudica, sceglie sempre il buon sentiero umano, dove si potrà vivere perfino l'invivibile

Essa è salda come la buona terra su cui tutto riposa
Ci si può appoggiare su di essa, pesarci sopra senza timore è tanto solida da sopportare la tristezza, l'angoscia, l'aggressione; da sopportare tutto senza indebolirsi e senza deflettere è costante come la parola paterna che non si piega è dunque luogo sicuro, dove io smetto di far paura a me stesso
Per questo è cosa sciocca ritenerla debolezza
Essa è la forza, quella vera, che fa venire al mondo crescere
L'altra, quella che distrugge e uccide, non è che orgia della debolezza

La divina tenerezza è invece una dolce fermezza, perchè nemmeno per un istante ferisce il cuore, non colpisce ciò che è al centro dell'uomo, in cui egli trova vita La divina tenerezza tutto salva, vuole salvare tutto
E non dispera mai di nessuno
Crede che vi sia sempre una strada
Senza sosta continua infaticabile a partorire, curare, nutrire, rallegrare e confortare
La divina tenerezza è carnale, riguarda il corpo
Non si perde in idee e discorsi, in decisioni, in stati d'animo
Non si preoccupa di esortare o spiegare
Sta nelle mani, nello sguardo, sulle labbra, l'orecchio attento, il viso, il corpo intero è nei gesti del corpo è l'anima amante del corpo che agisce è la bellezza amorosa del corpo umano
Non ha prove la tenerezza divina
Non si dimostra con argomentazioni, definizioni, giustificazioni
Appare ingenua e disarmata dinanzi al sospetto; di fatto nè differente
Poichè essa si gusta
Perchè divina?
Perchè non potrebbe essere umana?
è tutto il contrario: è divina da essere umana, in verità interamente umana.

Lo scritto è il "diario spirituale" - nel senso più ampio e più profondo dell'espressione - di un periodo di degenza ospedaliera. L'autore vi mette a nudo, ma sempre con la semplicità e il pudore di una garbata franchezza colloquiale, i sentimenti, i risentimenti, gli slanci spirituali e le riflessioni amare che la dolorosa congiuntura ha suscitato. La sistematica "umiliazione" del malato, proprio nel momento in cui egli è oggetto di "cura", è il tratto che più efficacemente accompagna il racconto di questa esperienza. L'esercizio cristiano qui sta proprio nell'impegno, di cui si avverte l'ineludibile cogenza morale e religiosa, di rimanere solidali con la condizione di molti simili: che sono estranei alle privilegiate vie di fuga alle quali l'uomo di spirito e di cultura può ricorrere. Ma anche da questo punto di vista, l'esercizio non è senza vantaggio: qui anche l'uomo spirituale, ha qualcosa da imparare. Il corpo è qui alla prova della malattia e della terapia ad un tempo. E l'anima alla prova del corpo. Eppure, anche lì, forse proprio lì, la divina tenerezza è in agguato: e il corpo dice, a proposito della sapienza di Dio, cose che l'anima ci aveva addirittura consigliato di nascondere a noi stessi. 
Pierangelo Sequeri

domenica 29 settembre 2013

Per sperare bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia.


La fede va da sé. 
La fede cammina da sola. 
Per credere c’'è solo da lasciarsi andare, c’è solo da guardare. 
Per non credere bisognerebbe farsi violenza, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. 
Irrigidirsi. 
Prendersi a rovescio, mettersi a rovescio, riprendersi. 
La fede è tutta naturale, tutta alla buona, tutta semplice... 
È una buona donna che si conosce, una buona vecchia, una buona vecchia parrocchiana, una buona donnetta della parrocchia... 

La carità purtroppo va da sé. 
Per amare il prossimo c’é solo da lasciarsi andare, c’é solo da guardare una simile desolazione. 
Per non amare il prossimo bisognerebbe farsi violenza, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi... 
La carità è tutta naturale, tutta zampillante, tutta semplice, tutta alla buona. 
È il primo movimento del cuore. 
È il primo movimento che è quello buono. 
La carità è una madre e una sorella... 

Ma la speranza non va da sé. 
La speranza non va da sola. 
Per sperare bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia. 
(Charle Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù).