venerdì 4 ottobre 2013

Francesco chiedeva al Signore, anziché di liberarli dalla povertà, di dar loro la gioia della povertà stessa. Giacché, se la povertà s’accompagna con la gioia, svaniscono la cupidigia e la bramosia


Oggi San francesco lascio scorrere Eloi Leclerc, La sapienza di un povero
(Non bisogna disprezzare nulla - cap. 9)
per stare in compagnia del Santo e lodare il Signore per quello che lui ha fatto per riparare  la Chiesa a gloria di Dio 

Tutti i frati dell’eremo si erano accorti che Francesco aveva finalmente riacquistato la pace. Tuttavia, essi sentivano che questa pace non aveva eliminato la sofferenza dal cuore del Padre: l’aveva soltanto trasfigurata.
Francesco non appariva più come un uomo sopraffatto.
Il suo viso s’era di nuovo aperto e schiarito.
Nel corso della giornata lo si sentiva spesso cantare.
Era una gran gioia per i frati l’udirne la voce.
Ma, ai loro occhi Francesco appariva l’uomo reduce dagli abissi.
Egli s’era avvicinato a Dio fin là dove un uomo può avanzare senza morirne. Aveva lottato con l’Angelo, tutto solo nel cuor della notte.
L’aveva vinto.
Ora Francesco tornava ai suoi frati, pur segnato dal marchio misterioso dell’impari lotta sostenuta. La luce del suo sguardo, pur avendo cancellato sul suo volto ogni traccia d’ombra, non vi aveva disperso quella espressione grave che rivelava un’anima profonda che Dio stesso aveva scavato per esservi contenuto.
Francesco aveva ripreso le sue meditazioni solitarie.
Nei sentieri sotto i pini la luce viva della primavera si attenuava e si faceva dolcissima. Egli amava venirci per raccogliersi e per pregare. Non diceva nulla, o quasi nulla.
La sua preghiera non era fatta di formule.
Egli ascoltava le voci della natura, e si limitava a coglierne ogni sfumatura.
Sembrava un cacciatore alla posta.
Trascorreva, così, lunghe ore d’attesa, attento ai minimi moti degli animali é delle cose circostanti, sempre pronto a cogliervi il segno d’una presenza. Il canto d’un uccello, il frullo delle foglie, i balzi d’uno scoiattolo ed il lento e silenzioso travaglio della vita non gli parlavano un linguaggio misterioso e divino? Era necessario saper ascoltare e capire, senza rifiutare nulla, con umiltà e devozione, imponendo silenzio alle proprie voci personali.
Il vento soffiava piano dentro i pini. Se ne sprigionava una bella canzone. E Francesco ascoltava la parola del vento che era divenuto il suo migliore amico.
Non era, forse, anche il vento pellegrino e straniero in terra, senza casa, sempre in cammino e sempre labile? Povero fra i poveri, il vento portava nella sua fuga i semi fecondi del creato. Donava tutto del suo. Seminava e passava. Né sapeva dove i semi cadessero, né prevedeva i frutti del suo lavoro. Era contento solo di seminare e seminava generosamente. Distaccato da tutto, il vento era libero come lo spazio sconfinato. Soffiava dove voleva, come lo Spirito del Signore secondo la Santa Scrittura.
E mentre Francesco ascoltava la voce del vento, sentiva sempre più forte il desiderio di partecipare allo Spirito del Signore e alla sua attività divina. E questo desiderio, invadendolo, lo colmava d’un immenso senso di pace.
Tutte le aspirazioni dell’anima sua si placavano al solo suo trasfondersi in questo desiderio supremo.

Una sera, tornando dalla questua, frate Silvestro disse a Francesco d’essersi attardato in una casa colonica a consolare una povera mamma il cui piccino era molto malato. Il bambino non ingeriva più alcun cibo, vomitava quasi tutto e deperiva a vista d’occhio. La madre vedeva il piccolo consumarsi di giorno in giorno e non poteva far nulla per salvarlo. Era per lei un vero e proprio strazio. Essa aveva già perduto un figlio due anni prima in condizioni analoghe. Era sfiduciata la povera donna e piangeva. Faceva pena il vederla ridotta in quello stato.

- Andrò a visitare quella povera donna - disse Francesco con semplicità.
E l’indomani mattina partì tutto solo attraverso i boschi e i campi. La casetta faceva parte di un borgo colonico. La si riconosceva facilmente. Aveva un tetto di calce ed era, secondo il racconto di frate Silvestro, la più povera e miserevole abitazione del borgo.
Nella piccola corte invasa dalla luce del sole un cane affamato accolse Francesco e gli si fece incontro abbaiando fino a leccargli la mano con l’umido muso. La porta del casolare era aperta. Francesco varcò la soglia rivolgendo ai presenti il suo solito saluto appreso dal Signore: «Sia pace a questa casa». Una figura di donna emerse dal buio del vano e si avvicinò alla porta d’entrata. Dai tratti del volto Francesco non ebbe difficoltà a riconoscere la madre del bambino malato. Il suo aspetto ancor giovanile, e pur tanto afflitto e sfinito, non lasciava dubbi in proposito: era lei la madre.
- Ho saputo da frate Silvestro - disse Francesco - che avete un bambino malato, e sono venuto a visitarlo.
Voi siete, senza dubbio, frate Francesco ribatté la donna il cui volto s’era di colpo disteso. - Frate Silvestro mi ha parlato di voi. Siate il benvenuto, Padre. Entrate, ve ne prego.
Essa lo condusse, senz’aggiunger parola, all’altra estremità del vano, presso la culla del suo piccino. Questi teneva gli occhi ben aperti, ma il suo visetto cereo non mostrava alcun segno di vita. Francesco si chinò su di lui con gesto materno e cercò con la sua mimica di farlo sorridere. Ma il bambino non sorrise. I suoi occhi grandi infossati nel cavo delle orbite profonde, erano cerchiati di livide occhiaie.
- Il buon Dio me lo toglierà, anche questo? chiese la donna al colmo del dolore. - Sarebbe il secondo nel giro di due anni. È straziante, Padre.
Francesco taceva.
Egli ben capiva il dolore di quella madre. Lo capiva benissimo, giacché anche lui da due mesi risentiva quel medesimo dolore. Sapeva lui pure cosa significasse perdere dei figli, e vederli deperire di giorno in giorno. Pertanto, la pena di quella donna lo colpiva e lo sconvolgeva fin nel profondo del cuore.
- Povera madre - soggiunse dopo un breve silenzio - il vostro stato è duro, molto duro. Ma non dovete disperare. Potete perdere tutto, ma non la fiducia.
Egli non parlava a fior di labbra, senza convinzione, solo perché sentiva di dover dire qualcosa. Francesco dava voce con le sue parole al suo profondo convincimento.
E la donna non mancò di convincersene. Altri le avevan senza dubbio parlato in quei termini, ma non in quel modo. L’impressione che essa ne ricevette, le riuscì del tutto nuova. Le parole di Francesco le giunsero da ben altra e diversa profondità. Egli doveva aver molto sofferto e doveva, forse, aver perduto tutto, per poter parlare con quell’accento tanto sincero e grave. Egli doveva aver superato la disperazione, doveva aver ritrovato la terra ferma, la realtà profonda che non inganna mai.
Accanto alla culla, una finestra s’apriva sul giardinetto dietro la casa. Seduto all’ombra d’un melo fiorito, vi si scorgeva il nonno che raccontava una storia ad un bambino seduto sulle sue ginocchia. Accanto, nell’erba una bambina giocava con un gattino nero.
- Sono i vostri due figli maggiori col loro nonno? - chiese Francesco, guardando fuori dalla finestra.
- Sì, sono i miei due maggiori - rispose la madre.
- Sembrano in buona salute - osservò Francesco.
- Sì - aggiunse la donna, torcendo un poco il viso. - Stanno bene di salute. Non posso lamentarmene, grazie a Dio.
- Sì, grazie a Dio - riprese Francesco. Avete ragione di ringraziare il Signore.
- È vero - obiettò la donna. - Ma se anche ne avessi dieci, tutti sani e pieni di vita, essi non potrebbero mai rimpiazzare il figlio che ho perduto. Un figlio non si rimpiazza. Egli è sempre un essere unico. E quando un figlio muore, tutti gli altri insieme, pur numerosi, non riescono a colmare il vuoto. E quanto più se ne ha sofferto, tanto più lo si ama e lo si rimpiange.
Ci fu una pausa di silenzio. Tra le tegole del tetto si udiva la rapida corsa d’un topo. Nel giardinetto il nonno continuava a raccontare la sua fiaba. Pareva ch’egli fosse giunto al momento più patetico del suo racconto. La sua voce si faceva più grave e più misteriosa. Il suo viso assumeva un’aria drammatica. La bambina non si curava più del gatto; e, avvicinatasi al nonno, lo supplicava con voce carezzevole:
- Ricomincia, nonno, ricomincia da capo. Non ho sentito bene il principio della storia,
- Lascialo raccontare - replicava il fratello, respingendola col braccio.
Ed il nonno, fingendo di non sentire, proseguiva la sua storia imperturbabile.
Nella culla il piccino non teneva più gli occhi aperti. Francesco -alzò la mano e lo benedisse. Quindi, si ritirò in punta di piedi.
- Lasciamolo dormire - disse alla madre. Tornerò presto a rivederlo.
- Mio marito sta lavorando nei campi - disse la donna. - Rincaserà non prima di notte. Ma voi andate a salutare il nonno prima di partire.
- No, lasciatelo stare, ve ne prego - replicò Francesco. - Non bisogna disturbarlo ora. Si guasterebbe la gioia dei bambini. Essi hanno bisogno di sentire le fiabe raccontate dal nonno. Un’infanzia senza fiabe è un mattino senza sole, o anche una giovane pianta senza radici. Io ricordo ancora e sempre le storie che nostra madre ci raccontava quando s’era bambini. Nostra madre era d’origine provenzale e conosceva bene le leggende di Francia. Nelle lunghe sere d’inverno, prima di coricarci, noi ci si stringeva intorno a lei e la si ascoltava con un piacere misto ad un po’ di paura. Essa ci raccontava le meravigliose storie della foresta di Brocéliande dove abitavano il mago Merlino e la fata Viviana. Altre volte essa ci parlava dell’Imperatore Carlo, dalla barba fiorita e dei suoi meravigliosi cavalieri Orlando e Oliviero. E noi ci figuravamo, come in sogno, quel paesaggio bello e dolce dove l’imperatore passava a cavallo con la scorta dei suoi paladini. Tutti questi ricordi mi sono rimasti bene impressi nella mente. Sento che fan parte di me. Talvolta li sento cantare dentro di me. Dio parla anche per mezzo di queste umili voci che vengono dalla terra. Son voci, queste, che non dobbiamo disprezzare. Non c’è nulla che vada disprezzato. Neppure le fate. Esse sono figlie di Dio.
La donna ascoltava, fissando il volto grave e dolce di Francesco. Essa era soprattutto colpita dalla immensa bontà che traspariva nelle parole di Francesco e che, raggiando dalla sua persona, si estendeva a tutte le cose. Mentre essa lo guardava e lo ascoltava, il mondo assumeva ai suoi occhi ben altro senso e peso. Il mondo le si faceva vasto e profondo, pieno di recondite armonie. Non v’era nulla di superfluo e tutto appariva regolato e radicato in una comune bontà originale. Il mondo le appariva degno di fiducia. Dio v’era presente per ogni dove, perfino nei racconti e nelle meravigliose storie di fate.
- Dovete tornare a trovarci una di queste sere disse la donna.
- Tornerò presto - rispose Francesco. - Arrivederci.

Francesco riprese la strada dei boschi e dei campi. Egli portava ora nel suo cuore il dolore di quella povera madre. Giunto che fu all’eremo, si mise a pregare mentre la notte calava. Era solito farlo. Ma quella sera il suo pensiero non si scostava da quella povera famiglia visitata poc’anzi. Francesco chiedeva al Signore, anziché di liberarli dalla povertà, di dar loro la gioia della povertà stessa. Giacché, se la povertà s’accompagna con la gioia, svaniscono la cupidigia e la bramosia. Egli rivedeva quella povera donna estenuata e scoraggiata che s’aspettava da lui un po’ d’aiuto. Francesco immaginava anche tutte le altre madri sfinite e desolate. Il dolore del mondo gli apparve sconfinato e senza fondo, come la notte.

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