mercoledì 7 marzo 2012

messa in pratica anche da parte di coloro che cristiani non sono: è la parola Amore.


Fra Marco Fabello direttore generale del Presidio ospedaliero B V Consolata di San Maurizio Canavese, vicino a Torino, sostiene: “Passando oltre l’uomo sofferente e ferito, perdiamo l’occasione di essere strumenti sananti. C’è una sofferenza interiore che spesso non è vista ma è più dolorosa. Per riuscire a sconfiggere la sofferenza, bisogna che questa sia prima
riconosciuta. accolta, incontrata, condivisa: in un certo senso, per sconfiggerla bisogna prima convivere con la sofferenza stessa” (2002). Ogni operatore sanitario si trova quotidianamente ad affrontare il problema del dolore inevitabile che si porta dietro sentimenti di impotenza, paura, ribellione. Di fronte a tal genere di dolore (la malattia, la morte) Balestro individua due atteggiamenti tipici dell’uomo (e di conseguenza anche dell’operatore sanitario): quello di chi si vive “da eterno”, si prodiga in consigli –il più delle volte inutili– preda di un narcisismo irritante che lo vuole comunque protagonista della scena e quello di chi, nel dolore, parla “come stando zitto”: è il silenzio quasi contemplativo di chi abbraccia, accoglie e comprende, è la condivisione vera che si esprime nei gesti più semplici ma, al momento, più  indispensabili. Il tentativo di stabilire un legame umano è l’anima vera del trattamento terapeutico di qualsiasi tipo. La parola che suggella questo tipo di legame è una parola cristiana, ma può essere messa in pratica anche da parte di coloro che cristiani non sono: è la parola Amore.
Per ogni persona impegnata nell’ambito della sanità, la forza terapeutica dell’amore è senz’altro una affermazione impegnativa, ma di efficacia dirompente. “Solo l’amore è in grado di calarsi nel dolore, di capirlo, di piangerlo e al tempo stesso di alleviarlo: infatti solo l’amore è capace di sopravvivere comunque, di farti sentire unico, indispensabile, importante nonostante l’ormai tua insignificanza, il tuo cader nel nulla … (Piero Balestro, La tristezza inutile, 1989). Ancora una volta, in quest’ottica, scopriamo che l’altro ci realizza e ci fa essere. È una realtà con cui si deve, nostro malgrado, fare i conti perché l’uomo come singolo di per sé non esiste. La grandezza di Balestro è stata la sua umanità: era in grado di riconoscere la sofferenza e di non passare oltre, ma di farsene carico e di condividerla con te, sia nelle vesti professionali che in quelle di amico. Maria Elena Boero

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