La persona che piange rinuncia infatti a giudicare e a sapere, rinuncia alle armi della conoscenza per lasciarsi sorprendere da una passività senza fondo che, paradossalmente riguardo all' avidità corrente a dominare ogni cosa, attenua e a volte dissolve la tenacia temibile del legame tra sé e il proprio male. In un certo modo questo legame che, per incapacità a disfarsene tramite la conoscenza e l'azione, finisce spesso per rivestire la forma tragica di un'identità tra sé e il proprio male, si apre un poco, o addirittura cede sotto la pressione della passività del pianto. Lungi dunque dal corrispondere ad una lamentevole e vergognosa rassegnazione all'impotenza o ad un' ammissione umiliante e crudele di sconfitta, l'abdicazione delle lacrime permetterebbe dunque di cessare di attaccarsi al male come alla propria identità in perdizione. Come se l'anima (neshma), rinunciando con il suo pianto ad aggrapparsi alla barra delle proprie forze per lottare contro il proprio dispiacere o il proprio dolore, ritrovasse per un istante il cammino verso un' alterità, magari destinata a restare innominata, capace di consolarla e liberarla.
CATHERINE CHALIER
TRATTATO DELLE LACRIME
Fragilità di Dio, fragilità dell'anima
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