lunedì 4 novembre 2013

adirarsi di fronte al peccatore sarebbe farsene proprietario, come se appartenesse a me piuttosto che a Dio


Prima di continuare la narrazione della vita di Francesco, interrotta il 18 ottobre mi sembra bello riflettere su un testo pubblicato in questi giorni dall'Osservatore Romano sulla pluralità di significati della povertà in San Francesco.

Senza appropriarsi
 di nulla
Carmine Di Sante

L’essenza della povertà francescana è in questa radicale e intransigente volontà di disappropriazione, intesa come sottrazione delle cose al potere dell’io per riconsegnarle al loro luogo originario da cui provengono: l’amore creatore. Due sono le modalità linguistiche alle quali Francesco ricorre per esprimere la sua concezione della povertà come disappropriazione.

La prima è il sintagma sine proprio tradotto in italiano con «senza nulla di proprio». Questa formula si trova sia nella Regola non bollata (Fonti francescane, 4) che nella Regola bollata (Fonti francescane, 75) e nelle Ammonizioni ritorna in un contesto del tutto particolare che riguarda l’atteggiamento da assumere nei confronti di chi fa il male: «Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona pecchi, il servo di Dio che si lasciasse prendere dall’ira o dallo sdegno per questo, a meno che non lo faccia per carità, “accumula per sé come un tesoro” (cf Rom 2, 5) la colpa degli altri. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, vive giustamente e senza nulla di proprio (recte vivit sine proprio, nell’originale latino). Ed è beato colui che non si trattiene nulla per sé, “rendendo a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Matteo, 22, 21)» (Fonti francescane, 160). Beato, per Francesco, è chi non si adira di fronte al fratello che pecca (a meno che la sua «ira» non nasca dalla carità ma in questo caso allora non si tratterebbe più di ira ma di compassione!) perché adirarsi di fronte al peccatore sarebbe farsene proprietario, come se appartenesse a me piuttosto che a Dio.

Di qui la duplice conclusione paradossale che chi «non si adira né si turba per alcunché, recte vivit sine proprio » e che «beato [è] colui che non si trattiene nulla per sé», lasciando che sia Dio e non l’io a giudicare.


Osservatore Romano, 2-3 novembre 2013

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