Invece secondo Gesù tutti dobbiamo convertirci per diventare figli.
Ma i cattivi, paradossalmente, seguono vie più facili, perché capiscono che in loro qualcosa non va bene. Anche il pubblicano era fuori strada, ma al contrario del fariseo lo sapeva, se n’era accorto, era cosciente dei propri limiti (cf Lc 18, 13). Nella parabola del samaritano (cf Lc 10, 25-37) i buoni (il sacerdote e il levita), che osservano rigidamente le regole, dimostrano di non conoscere quel Dio che credono di servire, perché Dio chiede di soccorrere il bisognoso piuttosto che seguire superflue ritualità. In realtà, l’osservanza della legge tende ad atrofizzare l’amore, e in modo tanto più grave quanto più ci si sente a posto. Nel vangelo appare chiaramente che la capacità di amare è soprattutto legata alla trasgressione, perché il buono resta paradossalemente prigioniero delle regole, mentre il cattivo è assai più libero di fare scelte coraggiose. Guai a cristallizzarsi nel proprio modo di essere, sentendosi dalla parte giusta: il rischio è di restarne imprigionati, di perdere ogni spinta al rinnovamento, di non uscirne più.
Nell’ottica dei buoni sono sempre gli altri a doversi convertire, ma chi è immerso nello spirito famigliare, quando si accorge che il cattivo di turno è un figlio, un fratello, un amico affezionato, comincia a convertire se stesso per andargli incontro. Capisce che solo così sarà possibile riuscire, forse, a convertirsi insieme. (Alberto Maggi e Antonio Thellung, La conversione dei buoni).
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