A mo’ di immagine, partirò dall’esperienza di certi monaci dei primi tempi della Chiesa, nel III e IV secolo. Di notte essi stavano in piedi, nella posizione dell’attesa. Si ergevano lì, all’aperto, diritti come alberi, con le mani alzate verso il cielo, rivolti verso il luogo dell’orizzonte da cui doveva venire il sole del mattino. Tutta la notte il loro corpo abitato dal desiderio attendeva il levar del giorno. Era la loro preghiera. Non avevano parole. Che bisogno c’era di parole? La loro parola era il loro stesso corpo in travaglio e in attesa. Questa fatica del desiderio era la loro preghiera silenziosa. Erano là, semplicemente. E quando al mattino i primi raggi del sole raggiungevano la palma delle loro mani, essi potevano fermarsi e riposare. Il sole era giunto. C’è nell’esperienza spirituale quest’attesa di cui è impossibile dire se sia più particolarmente corporale e spirituale, se sia più specificamente concettuale o affettiva. Sarà per noi una tentazione costante il voler identificare Dio con qualcosa di affettivo oppure di più razionale, di più fisico oppure di più cerebrale. L’attesa concerne il nostro essere intero. E ciò che ci giunge è precisamente il raggio che illuminando la palma delle nostre mani e cambiando a poco a poco il paesaggio, ci annuncia che il sole viene, altro da ciò che la notte ci permette di conoscere.
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