Nell'arcobaleno di Etty di Gianfranco Ravasi
(in “Il Sole 24 Ore” del 19 maggio 2013)
«Bisogna saper accettare le proprie pause»: si noti bene, non "paure", ma per Etty (Ester) Hillesum le "pause", le soste, gli spazi vuoti di silenzio sono la "minore" rispetto alla totalità "maggiore" degli eventi e dei pensieri forti, ed entrambi costituiscono il contrappunto armonico della vita.
La frase citata è l'ultima, scritta in maiuscoletto, dei diari che hanno reso celebre questa giovane donna ebrea, nata nel 1914 e reca la data della «mattina presto» del 13 ottobre 1942... Non è possibile rendere ragione dello straordinario arcobaleno tematico e spirituale di queste pagine: chi ne intraprende la lettura non può più lasciarla fino all'approdo finale e non ne può uscire indenne. L'unica nota che vogliamo segnalare riguarda proprio l'arco cromatico dei diari, specchio di un'evoluzione esistenziale. Etty, infatti, parte dal gelido violetto degli interessi esterni di una ragazza di Amsterdam, non osservante, desiderosa solo di vivere, amante di Rilke, Dostoevskij e Jung, non priva di relazioni sentimentali.
Ben presto, però, in lei si accende una scintilla che le incendia l'anima e la sua diventa un'ascensione verso il mistero e l'incontro intimo e supremo con Dio e verso l'altro estremo rosso fuoco di quello spettro spirituale.
Le parole talora si fanno incandescenti e rivelano una straordinaria temperie mistica che si alimenta sia a un'intelligenza fremente e altissima sia alla tragedia della distruzione che il nazismo sta operando nei confronti degli Ebrei («la nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte e presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi»).
Confessa:
«In fondo, quelle a Dio sono le uniche lettere d'amore che si devono scrivere».
E ancora:
«Si deve essere capaci di vivere senza libri e senza niente. Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera».
Era convinta che,
«dissodando vaste radure di pace in noi stessi»,
esse si sarebbero potute estendere fino a pacificare l'intera umanità, perché Dio dev'essere
«disseppellito dai cuori devastati dagli uomini»,
così come egli dev'essere «dissotterrato» dalla nostra anima dove giace «coperto di pietra e di sabbia» (e questa annotazione è stata citata da Benedetto XVI nella sua penultima udienza generale dello scorso febbraio).
Se si imbocca la via della citazione da quei quaderni, non si riesce più a staccarsene.
È per questo che ci fermiamo qui con un'ultima evocazione che potrebbe essere un suggello ideale:
«La mia vita è diventata un dialogo ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande dialogo. A volte quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti verso il tuo cielo, il mio volto si inonda di lacrime che sgorgano da un'emozione profonda e da gratitudine.
Anche di sera quando, coricata sul mio letto, mi raccolgo in te, mio Dio, lacrime di gratitudine mi
inondano il volto: e questa è la mia preghiera».
Tutta la famiglia Hillesum fu deportata ad Auschwitz nel settembre 1943; i genitori furono eliminati subito nelle camere a gas, mentre Etty –secondo la Croce Rossa – morì il 30 novembre.
Aveva 29 anni.
A lei vogliamo accostare un'altra figura femminile mistica di grande fascino: è
Teresa di Lisieux, morta a soli 24 anni nel 1897, canonizzata nel 1925 da Pio XI e dichiarata a sorpresa "Dottore della Chiesa" da Giovanni Paolo II nel 1997, cent'anni dopo la sua morte.
A lei, entrata quindicenne nel Carmelo ove elaborerà quella straordinaria Storia dell'anima dalla redazione travagliata ma folgorante per il suo messaggio, un teologo che è anche un noto giornalista, Gianni Gennari, dedica un poderoso testo, capace di raccogliere quel capolavoro spirituale nei suoi tre manoscritti (A, B,C), ma anche un ritratto incisivo e accurato della santa. Come, infatti, confessa in un "postscriptum personale", egli ha incontrato gli scritti e la personalità di Teresa, uscendo nel 1957 da un lungo stato di coma.
Di là iniziò la ricerca storico-critica e teologica appassionata attorno a questo «piccolo fiore» che aveva scelto la via dell'infanzia evangelica (che non è infantilismo) per ascendere fino ai sentieri d'altura ove si scopre che
«Dio non ha affatto bisogno delle nostre opere, ma solo del nostro amore».
Questa
«piccola via»
conquisterà tanti suoi lettori, a partire da Bernanos che scriveva a un amico:
«Ho perso l'infanzia e non la potrò riconquistare se non attraverso la santità»,
per giungere all'ebreo Joseph Roth della Leggenda del santo bevitore, per non parlare poi dei papi, come Gennari attesta in un capitolo specifico. Persino un personaggio piuttosto forte e rude come Pio XI ne rimase coinvolto fino al punto da considerarla «stella del suo pontificato», pur negandole, perché donna, quel titolo di "Dottore" che – come si è detto – un suo successore con convinzione le assegnerà.
Concludiamo questo squarcio di luce che promana da due figure femminili in cui s'intrecciano intuizione e contemplazione, fede e grazia, con un saggio a suo modo sorprendente.
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