La maggior parte delle persone non è in grado di parlare di nulla se non parla di sé o comunque della cerchia di cui è il centro. C'è un termine sontuoso in voga nel linguaggio colto: è -autoreferenzialità-. Con esso si denuncia quel rinchiudersi a riccio degli specialisti nella torre d'avorio del loro linguaggio incomprensibile al volgo, nel mondo aristocratico delle competenze, nello splendido isolamento del proprio campo o classe.
È un vizio che intacca la scienza, la filosofia, l'arte, la stessa teologia. C'è, però, un'altra -autoreferenzialità- che è praticata allegramente anche da chi ignora persino l'esistenza di un simile vocabolo ed è quella bollata da un grande scrittore inglese ottocentesco, Anthony Trollope, nel suo romanzo La canonica di Framley (1861) con la frase che oggi proponiamo.
Nel 1965 un regista "storico" come Alessandro Blasetti propose un film significativo già nel titolo, Io, io, io-e gli altri, interpretato dai maggiori attori di quegli anni. Il titolo era già un programma: troppi, infatti, mettono al centro del loro dire, fare, calcolare solo se stessi, quell'Io coccolato, massaggiato, incensato, lasciando ai margini -gli altri- che si concepiscono solo in funzione di se stessi.
Non è solo egoismo o egocentrismo, è alla fine anche una povertà di parole, di idee, di interessi. Senza arrivare al nostro Carlo Emilio Gadda che nella Cognizione del dolore esclamava: «L'io, io!... Il più lurido di tutti i pronomi!», proviamo tuttavia ad abbattere il muro dell'individualismo, ad ascoltare e a guardare la varietà dell'umanità che ci circonda. Sarà una ventata d'aria, forse anche turbinosa e rumorosa, ma capace di spazzar via l'atmosfera asfittica del nostro isolamento saccente e orgoglioso o, più semplicemente, monocorde e noioso.
Ravasi
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