Due "no" vanno pronunciati senza riserve in questo sforzo di coniugare l’assoluto primato dell’Eterno e il nostro cammino di Chiesa.
Il "no" a una comunione troppo tenue e
il "no" a una comunione che divenga chiusura.
Nella prima la solitudine non è vinta,
nella seconda il Mistero rischia di essere soffocato.
Ciò che ci viene chiesto oggi è di essere la Chiesa dell’amore: un popolo di donne e uomini liberi che accettano di vivere sotto l’assoluto primato di Dio e perciò nell’esperienza di comunione fraterna che deriva dal partecipare della Sua grazia, vivificati dal Suo amore.
Il "no" a una comunione troppo tenue e
il "no" a una comunione che divenga chiusura.
Nella prima la solitudine non è vinta,
nella seconda il Mistero rischia di essere soffocato.
Ciò che ci viene chiesto oggi è di essere la Chiesa dell’amore: un popolo di donne e uomini liberi che accettano di vivere sotto l’assoluto primato di Dio e perciò nell’esperienza di comunione fraterna che deriva dal partecipare della Sua grazia, vivificati dal Suo amore.
Non dobbiamo illuderci che ciò sia facile
né che dia luogo senz'altro a comunità idilliache.
Sarebbe una grande illusione e farebbe torto alla fatica e al lungo cammino del disegno redentivo di Gesù.
Ascoltiamo un maestro di vita, Jean Vanier, fondatore della comunità dell'Arca:
“Desideriamo vivere in un mondo perfetto, una comunità perfetta, una chiesa perfetta... Questa idea della perfezione, alla quale ci aggrappiamo, è così profondamente ancorata in noi che ci spinge a negare le nostre ferite e a disprezzare quelle degli altri, a condannare una comunità che non è perfetta o non corrisponde al nostro ideale”.
Così una comunità non si crea,
ma si distrugge.
Invece “il senso di appartenenza sgorga dalla fiducia, fiducia che è accettazione progressiva degli altri, così come sono, con i loro doni e i loro limiti, essendo ognuno chiamato da Gesù. Così diventiamo coscienti che il corpo della comunità non può mai essere perfettamente uno.
È la nostra condizione umana.
È normale per noi non essere perfetti.
Non dobbiamo piangere sulle nostre imperfezioni perché non veniamo giudicati per questo. Il nostro Dio sa che, da molti punti di vista, siamo zoppi e a metà ciechi. Non vinceremo mai la corsa alla perfezione nei giochi olimpici dell'umanità! Ma possiamo camminare insieme con speranza e rallegrarci di essere amati nelle nostre spaccature. Possiamo aiutarci gli uni gli altri a crescere nella fiducia, la compassione e l'umiltà, a vivere nell'azione di grazia, imparare a perdonare e a chiedere perdono, ad aprirci di più agli altri, ad accoglierli e a fare ogni sforzo per portare la pace e la speranza nel mondo.
È per questo che ci radichiamo in una comunità:
non perché è perfetta,
meravigliosa,
ma perché crediamo
che Gesù ci raduna per una missione.
Ce la dà come una terra nella quale siamo chiamati
a crescere e
a servire”
né che dia luogo senz'altro a comunità idilliache.
Sarebbe una grande illusione e farebbe torto alla fatica e al lungo cammino del disegno redentivo di Gesù.
Ascoltiamo un maestro di vita, Jean Vanier, fondatore della comunità dell'Arca:
“Desideriamo vivere in un mondo perfetto, una comunità perfetta, una chiesa perfetta... Questa idea della perfezione, alla quale ci aggrappiamo, è così profondamente ancorata in noi che ci spinge a negare le nostre ferite e a disprezzare quelle degli altri, a condannare una comunità che non è perfetta o non corrisponde al nostro ideale”.
Così una comunità non si crea,
ma si distrugge.
Invece “il senso di appartenenza sgorga dalla fiducia, fiducia che è accettazione progressiva degli altri, così come sono, con i loro doni e i loro limiti, essendo ognuno chiamato da Gesù. Così diventiamo coscienti che il corpo della comunità non può mai essere perfettamente uno.
È la nostra condizione umana.
È normale per noi non essere perfetti.
Non dobbiamo piangere sulle nostre imperfezioni perché non veniamo giudicati per questo. Il nostro Dio sa che, da molti punti di vista, siamo zoppi e a metà ciechi. Non vinceremo mai la corsa alla perfezione nei giochi olimpici dell'umanità! Ma possiamo camminare insieme con speranza e rallegrarci di essere amati nelle nostre spaccature. Possiamo aiutarci gli uni gli altri a crescere nella fiducia, la compassione e l'umiltà, a vivere nell'azione di grazia, imparare a perdonare e a chiedere perdono, ad aprirci di più agli altri, ad accoglierli e a fare ogni sforzo per portare la pace e la speranza nel mondo.
È per questo che ci radichiamo in una comunità:
non perché è perfetta,
meravigliosa,
ma perché crediamo
che Gesù ci raduna per una missione.
Ce la dà come una terra nella quale siamo chiamati
a crescere e
a servire”
Ripartire da Dio Carlo Maria Martini
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